Economia

Inps: le donne continuano a percepire pensioni e stipendi più bassi

Rispetto agli uomini, lavorano un numero di giorni inferiore, prevalentemente con contratti part-time, e sono poco presenti nelle posizioni dirigenziali. I dati dello studio del Comitato di indirizzo e vigilanza presieduto da Roberto Ghiselli
Credit: Moe Magners  

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5 marzo 2024 Aggiornato alle 14:00

É stato recentemente pubblicato l’ultimo rapporto Inps sui divari di genere nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale. Lo studio voluto dal Civ, il Comitato di indirizzo e vigilanza presieduto da Roberto Ghiselli, è stato realizzato dalla Direzione centrale studi e ricerche dell’Istituto.

Dai dati della ricerca emerge che la parità di genere nel mercato del lavoro è ancora lontana e la necessità di conciliare vita professionale e familiare (e quindi l’uso dei relativi strumenti) rimane legata a una dimensione culturale prettamente femminile.

Le lavoratrici trovano ancora oggi lavoro solo presso un numero limitato di ambiti rispetto ai colleghi di sesso maschile e spesso in attività contraddistinte da salari più bassi rispetto a quelli percepiti dai lavoratori (anche a parità di ruolo ricoperto).

L’occupazione femminile nei settori non-agricoli dal 2010 al 2022 è aumentata complessivamente dal 40,6% al 41,7%.

I settori in cui il tasso di femminilizzazione – il rapporto cioè tra donne occupate e il totale – è più elevato riguardano i servizi (79% nella sanità, 77% nell’istruzione, 53% nella ristorazione).

Le donne sono invece fortemente sottorappresentate nel settore manifatturiero (30% circa), fino a essere quasi del tutto assenti nel comparto delle costruzioni – dove rappresentano poco meno del 9% degli occupati e delle occupate – e all’interno dei Corpi di Polizia, Vigili del Fuoco e delle Forze Armate, dove circa il 90% del personale in servizio è di sesso maschile.

Per quanto riguarda invece il settore finanziario/assicurativo, quello commerciale, e del noleggio, il tasso di femminilizzazione si attesta attorno al 50% circa.

Le donne lavorano un numero di giorni inferiore (circa 221 contro i 234 degli uomini), prevalentemente con contratti part-time (modalità che interessa infatti delle lavoratrici, con picchi del 60% registrati nel Mezzogiorno), sono poco presenti nelle posizioni dirigenziali (appena il 21% nel 2022 contro il 13% di 12 anni fa) e vengono pagate meno rispetto ai loro colleghi.

E questo riguarda sia il pubblico, sia il privato. Nel 2022, infatti, la retribuzione femminile media nel settore privato si attesta sui 16.300 euro contro 24.500 euro annui percepiti dagli uomini. Una differenza del 40% che, anche a parità di condizioni (età, contratti, ore lavorate), non si azzera mai e arriva a un 12-13% stabile.

Nel settore pubblico il gap si riduce, ma persiste; per le donne la retribuzione è di 28.400 euro annui contro i 33.600 euro annui dei maschi. Questo divario è dovuto al sempre più frequente ricorso nelle Pa dei contratti brevi, soprattutto nella scuola e nella sanità, dove la maggioranza degli occupati è di sesso femminile.

Inoltre, le donne dirigenti con meno di 40 anni guadagnano in media 65.000 euro, a fronte dei quasi 103.000 degli uomini. Tale differenza persiste anche nelle fasce di età successive, con le donne dirigenti tra i 49 e i 59 anni che percepiscono in media poco meno di 142.000 euro rispetto ai 170.000 euro degli uomini, e quelle oltre i 60 anni con una retribuzione media di 126.000 euro rispetto ai 175.000 euro percepiti dagli uomini.

Ma la disparità di genere si esprime anche nell’utilizzo dei congedi parentali: le donne rappresentano l’80% delle richieste totali, che sono concentrate nei primi tre anni di vita del bambino, a conferma di una concezione della donna ancora come l’unico soggetto capace di crescere il figlio nella fase neonatale.

Gran parte delle richieste di congedo viene espressa da lavoratori impiegati in grandi aziende. Inoltre, assolutamente preponderante è l’incidenza dei lavoratori a tempo pieno sul totale dei richiedenti, soprattutto per i padri (per il 2022 l’incidenza del part-time tra le madri richiedenti supera il 46% mentre tra gli uomini si attesta intorno al 9%).

E il gender gap si ripercuote anche sull’età pensionabile.

Anche se le donne rappresentano la maggioranza della popolazione dei pensionati (52%), percepiscono solo il 44% del reddito pensionistico totale (141 miliardi di euro su 322 miliardi di euro erogati), con un importo medio mensile di 1.416 euro.

Gli uomini pensionati percepiscono in media il 36% in più. Le donne sono prevalentemente rappresentate nella classe di reddito pensionistico più basso (inferiore a 1.500 euro), in netto contrasto rispetto agli uomini, che rappresentano oltre il 70% della fascia più elevata (superiore a 3.000 euro mensili).

Dal report emergono profonde differenze di genere negli importi anche a parità di tipologia di prestazione (soprattutto per prestazioni di vecchiaia e invalidità, che hanno un gap del 50%) mentre i trattamenti assistenziali, legati a situazioni di disagio economico e con tetti massimi relativamente contenuti, hanno valori mediamente simili.

Focalizzandosi sulle prestazioni più strettamente legate all’attività lavorativa, il gender gap è in linea di principio legato ad almeno tre fattori: retribuzione oraria, tempo di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati nel corso di un anno) e anzianità contributiva (che dipende dalla durata e dalla continuità della vita lavorativa).

L’evoluzione del gap negli ultimi venti anni è evidente: in termini nominali, è passato da 3.900 euro nel 2001 a 6.200 euro nel 2022.

Complessivamente, assistiamo a un’ulteriore conferma dell’esistenza del gender pay gap all’interno del mercato del lavoro italiano.

Una speranza? Il regolamento adottato dal Consiglio europeo per combattere le discriminazioni retributive, che ogni Stato membro dovrà recepire entro il 2026.

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