Futuro

Quel che resta dei social in Russia

La stretta sulla comunicazione virtuale è realtà: no a Facebook, Instagram e TikTok. Eppure, nel Paese esistono delle alternative per aggirare la censura
Tempo di lettura 5 min lettura
15 marzo 2022 Aggiornato alle 17:00

Entrando su VK (VKontankte), il Facebook russo fondato nel 2006, non sembra di essere nella bolla di censura che ci immaginiamo. Almeno all’apparenza.

Navigando nel social network più famoso in Russia – nel dicembre 2020 gli utenti attivi da un cellulare erano oltre 66 milioni per un totale di 210 milioni di profili – tra le ricerche, è possibile trovare notizie su Marina Ovsyannikova, la redattrice del Pervyj Kanal, la principale emittente televisiva russa pubblica, arrestata ieri sera dopo aver mostrato in diretta tv un cartello che dice “No alla guerra”, in inglese, seguita dalla scritta, in russo, “Non credete alla propaganda, qui vi stanno mentendo”.

A comparire sono anche i post che contengono la parola “guerra in Ucraina” nonostante la nuova legge che introduce pene fino a 15 anni di carcere per la diffusione di notizie ritenute false sulle azioni militari russe in Ucraina: ad avere la maggiore, però, sono i contenuti in favore della liberazione dei territori ucraini da parte dell’esercito russo.

Dopo lo stop a prodotti e servizi sul territorio russo delle Big Tech, da Facebook, Instagram, Apple, Google, Amazon, Microsoft e Apple, l’unico social media rimasto accessibile è proprio VKontakte, dal 2014 di proprietà della società russa di Internet Mail.ru, diventato uno dei principali fornitori di posta elettronica nel Paese e che possiede anche un gran numero di siti web.

L’acquisizione da parte di Mail.ru avvenne quando il fondatore, Pavel Durov, decise di lasciare VK a causa di ingerenze politiche da parte di collaboratori vicini al presidente russo Vladimir Putin. Ad aprile del 2014, dopo la protesta di Piazza Maidan a Kyiv, Durov si rifiutò pubblicamente di consegnare i dati dei manifestanti ucraini alle agenzie di sicurezza russe e di bloccare la pagina VK dell’oppositore Aleksey Navalny.

Non solo VK, Durov è anche il padre di Telegram, l’app di messaggistica nata nel 2013 che gode della fama di essere inattaccabile da un punto di vista di privacy grazie a un servizio più “privato”. L’applicazione a metà tra messaggistica privata e social networking, con gruppi e canali da centinaia di migliaia di utenti, negli anni è diventata un’alternativa più “accessoriata” di WhatsApp, ma anche il servizio prediletto di gruppi marginali, complottisti ed estremisti. In questi giorni persino il New York Times ha deciso di aprire un canale Telegram per tenere sempre aggiornati i lettori del quotidiano sulla guerra in Ucraina attraverso testimonianze, interviste e breaking news.

Tornando alla privacy, nonostante la promessa di avere una crittografia end-to-end, un sistema di comunicazione cifrata nel quale solo le persone che stanno comunicando possono leggere i messaggi, gli scambi virtuali su Telegram non risultano essere privati o criptati di default. A differenza di WhatsApp, la funzione è infatti manuale.

Se i contenuti su Telegram e VK risultano quindi tutto fuorché sicuri, anche il punto di riferimento di molti russi, Yandex, è a rischio, questa volta per default. Il colosso tech nato alla fine degli anni Novanta e che gestisce il motore di ricerca più usato e conosciuto del Paese, offre diversi servizi e prodotti, dall’email all’acquisto di biglietti aerei fino ai taxi e alla consegna di generi alimentari.

A pochi giorni dallo scoppio della guerra in Ucraina, Yandex ha lanciato l’allarme che potrebbe andare in default dopo essere stato sospeso dalle negoziazioni della borsa di New York (che nella prima settimana di marzo, insieme al Nasdaq, ha sospeso tutte le quotazioni delle società russe quotate anche negli Stati Uniti).

“Attualmente non ci sono restrizioni normative sulla capacità delle persone statunitensi, britanniche o dell’Ue di acquisire e scambiare titoli di Yandex”, si legge nel comunicato stampa del colosso tech. Tuttavia, la società ha affermato che “il gruppo Yandex nel suo insieme non ha attualmente risorse sufficienti per riscattare le banconote per intero”. Anche se la società fosse in grado di ottenere grandi finanziamenti, una spesa così ingente “avrebbe un effetto negativo concreto sulla posizione finanziaria e liquidità a breve termine e potrebbe influire sulla capacità di adempiere agli altri nostri obblighi”.

Il motore di ricerca dell’azienda, lanciato nel 1997, è il più grande del suo genere in Russia, rappresentando oltre il 60% delle ricerche su Internet del Paese nell’ultimo trimestre del 2021.

A causa della stretta del Cremlino, persino l’ex capo delle news di Yandex, Lev Gerschenzon, ha preso posizione e accusato i suoi ex colleghi di collaborare alla censura di Mosca a favore della guerra.

Prima dello stop al social di Meta, in un post, Gerschenzon si è rivolto ai suoi ex colleghi chiedendogli di smarcarsi dalla strategia del Cremlino di tenere all’oscuro i cittadini su quel che sta succedendo nel conflitto in corso in Ucraina.

Leggi anche
repressione
di Maria Michela D'Alessandro 3 min lettura
giornalismo
di Maria Michela D'Alessandro 3 min lettura