Diritti

Perché non posso essere triste?

Se smettessimo di dare la felicità per scontata, quasi fosse un oggetto, capiremmo che non dipende né dal lavoro, né dagli status symbol, né, tantomeno, dal successo
Credit: Jason Leung  

Tempo di lettura 5 min lettura
6 febbraio 2024 Aggiornato alle 06:30

In questo momento non posso essere triste. Così mi è stato detto.

Se ai “come stai” rispondo con “come al solito” o faccio dell’ironia sullo stato depressivo che mi accompagna da quando sono bambina, vengo sgridata.

Quasi ancora lo fossi, una bambina. Una bambina ingrata. Non posso essere triste, mi dicono. “Non puoi essere depressa pure adesso”, “eh, ma tu sei sempre negativa”, “ma pensa a chi invece…” e via discorrendo.

Per chiarire che avendo fatto una certa cosa non posso proprio dirmi depressa. Essì, perché posso esserlo, per quanto la cosa sia disprezzata dai miei sempiterni educatori, l’importante è che non ne parli. Che metta in scena la gioia, l’emozione trattenuta a fatica, magari pure un po’ di finta modestia, cosicché di me si possa dire che sono arrogante e incapace di avere cura di chi mi sta attorno. Sì, perché allora non mi redarguirebbero direttamente, a voce o in chat, ma lo farebbero con voci e chat lontane dai miei occhi e dalle mie orecchie.

Perché alla fine, un po’ di colpa me la devo accollare.

La verità però è che depressa sono, depressa rimango e che no, non mi sento meglio per aver fatto quella certa cosa. Anzi, forse, quella roba lì mi ha proprio fregata.

Perché forse va detto, raggiungere i cosiddetti traguardi riconosciuti, sembra a tutti gli effetti una promessa di felicità.

I “se vuoi puoi” qui si mescolano ai “quelle sono le cose che contano, che ti cambiano la vita, che ti danno felicità”.

Bene, come al solito, sono la prova vivente, la testimonianza organica che non solo sono tutte cazzate, ma cazzate raccontate con uno scopo: farci rincorrere l’impossibile.

Un arrivo che se per caso - perché il merito non esiste ed è un’altra storiella pensata per rabbonire e quietare - viene raggiunto non da ciò che si presumeva avrebbe portato, non è certo colpa del fatto che il sistema socioeconomico è problematico, squilibrato, non certo migliorabile con l’annessione di un singolo soggetto nella cerchia del potere, no, assolutamente no: la colpa è nostra. Quindi, oggi, non che abbia fatto chissà che, mi devo sentire in colpa perché la mia depressione non è svanita, dissolta da una dispercezione di successo. Pensa te.

E parliamo di questo, per un attimo. Stando alle stime il 54% delle persone che fanno un esordio letterario percepisce un effetto negativo sulla propria salute mentale. L’esordio, stando a quanto dichiarato dagli intervistati, ha portato con sé ansia, stress, depressione e un abbassamento dell’autostima. Per non parlare della ricorrente e sentita assenza di supporto da parte dell’editore, spesso citato come fattore che ha contribuito alla flessione umorale.

Dunque, nell’era in cui la critica e la pubblica umiliazione sono mezzi quotidiani di accrescimento della propria fama, non sorprende che chi ha appena messo un pezzo di sé su carta si senta particolarmente vulnerabile. Soprattutto se deve gestire lo stress in solitudine, sapendo che di questo lavoro non si vive, ma che ne si può morire. Che il rischio di perdersi nella critica, nell’autocritica e nel senso di inutilità è dietro l’angolo.

Peggio ancora, sospetto, ci sia l’incubo di essere diventati un bene, un oggetto pubblicitario, un nome da apporre per fare una vendita oppure quello da evitare per non andare in perdita. Perché sì, perché le classifiche hanno più valore dei libri, perché Amazon domina il mercato ed è la percezione attorno al nome a segnare il discrimine tra un libro imperdibile e uno che verrà dimenticato. E non vale solo per i libri. Ma per tutte quelle volte in cui qualcosa, un evento o un fatto, viene considerato un arrivo, qualcosa di riconosciuto all’esterno come qualcosa di valore.

Perciò, non riconoscere valore a quella cosa, o almeno, non il valore socialmente attribuitole, sarebbe un buon modo per ridurre il problema. Come pure non saltare nel tentativo di sfiorare il soffitto di cristallo, voltando le spalle a quello che c’è stato prima. A chi si è state è stati prima. Non diventare un ingranaggio nella macchina, ma farla saltare.

Quindi, i “come stai” che vogliono sentirsi dire di rimando un “alla grande”, rimangono disattesi, perché la depressione non va da nessuna parte. Non si schioda. Anzi, allunga radici più profonde.

E perché tutto questo? Non sarà forse che le cose non cambiano veramente e che non ci sono traguardi ma banderuole? Se alla fine della giornata in libreria spunta un titolo nuovo, ma con quel titolo ci si fa solo nuova merce, è inevitabile che le persone non ne traggano gioia. Figuriamoci quelle che già stavano male prima. Perché no, non sono gli spauracchi sociali - come l’invenzione del successo - a risolvere la depressione, l’ansia o lo stress.

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