Ambiente

L’Ecopessimismo per adattarsi al cambiamento climatico

Il filosofo Claudio Kulesko, autore del libro Ecopessimismo, spiega a La Svolta che la continuità tra natura e cultura rende l’ecocidio un attacco all’umanità e come l’ecopessimismo potrebbe aiutarci
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27 gennaio 2024 Aggiornato alle 15:00

«La natura esiste solo finché crediamo collettivamente che essa esista» sosteneva il geografo britannico Noel Castree. Solo che l’essere umano, nel pieno dell’Antropocene, sembra aver smesso di considerare l’ambiente come rilevante per la sua stessa sopravvivenza. Basta osservare la natura selvaggia e gli spazi urbani per valutare come l’attività umana influisce negativamente sul mondo.

Il cambiamento climatico non è più opinabile e chi ha preso coscienza di ciò si divide tra paura, tristezza e preoccupazione, non a caso, negli ultimi anni abbiamo cominciato a sentir parlare di ecoansia e solastalgia.

Sulla scia di ciò, il filosofo e autore Claudio Kulesko con il suo libro, Ecopessimismo, (Piano B, 188 pp, 15 euro) ci introduce appunto all’ecopessimismo, una prospettiva filosofica che esplora il lato oscuro delle interazioni tra l’umanità e l’ambiente.

Già Leopardi ci aveva avvertito ne La Ginestra che stavamo perdendo il contatto con la natura ma non abbiamo colto i segnali. La filosofia gioca un ruolo importante suo tuo libro, in che modo il pensiero speculativo e il pessimismo filosofico, possono contribuire a comprendere e affrontare la crisi ambientale?

Proprio La Ginestra è utile a comprendere in che senso le radici del pessimismo siano, innanzitutto, ecologiche e naturalistiche, ossia riconducibili all’indagine della natura e alla riflessione sull’organismo, lo scorrere del tempo, le piante e gli animali. Si potrebbe quasi dire che il pessimismo abbia avuto inizio non con il Romanticismo europeo, ma quando ci si è davvero resi conto per la prima volta di quanto sia ingiusto e assurdo che i corpi debbano patire la malattia, la vecchiaia e il dolore, per poi sparire per sempre da questo mondo. Un destino riservato all’umanità stessa. Il pessimismo speculativo (ossia il pensiero riguardante catastrofi future e ipotetiche) è l’unico approccio possibile agli aspetti negativi della crisi ecologica.

Nel libro parli del conflitto natura-cultura.

L’idea di base è allontanarsi dalla ricomposizione del dualismo mente-corpo proposta dalle nuove filosofie anti-naturaliste e anti-meccaniciste, vista negativamente perché separa natura e spirito. Dal punto di vista pessimista, questa separazione configura lo spirito e l’autocoscienza umana come un’anomalia nel continuum naturale. La crisi ecologica aggiunge un ulteriore spunto di riflessione, notando il paradosso che l’animale più simbolico e autoconsapevole sta distruggendo l’intera biosfera.

La nostra cultura illusoria di controllare completamente la natura ci ha alienati?

Il fatto che l’intera superficie terrestre sia antropizzata - persino le aree protette e i parchi naturali in quanto tali - testimonia quella che Hegel chiama l’“impronta” dello spirito umano cioè la nostra tendenza a imprimere sulle cose un segno. In pratica, non siamo in grado di lasciare in pace ciò che ci circonda. Questo ha condotto l’Occidente industrializzato a ritenersi superiore al non umano. Un paradigma valido anche per le popolazioni che reputiamo convivano in modo pacifico con il proprio habitat - ne sono un esempio le pratiche magiche finalizzate alla coercizione degli dèi o degli elementi, i miti e i sacrifici.

L’alienazione, in questo caso, sta nell’aver perso la coscienza dell’essere parte integrante dei meccanismi naturali. Anche i peggiori, quelli più negativi.

Hai menzionato diverse traiettorie come l’estinzionismo, il prepperism, l’antinatalismo. In che modo si collegano all’ecopessimismo?

Ne rappresentano, da un certo punto di vista, le controparti pratiche e immaginarie. Pratiche perché indicano un percorso fatto di progetti e azioni (o azioni mancate). Immaginarie perché ormai affondano le radici nell’immaginario collettivo, nel cinema, nella letteratura, nel fumetto, nel settore ludico. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di risposte a quello che i survivalisti denominano “worst case scenario”, e che i pessimisti degli ultimi tre secoli circa hanno chiamato “peggiore dei mondi possibili”. L’estinzionismo e l’antinatalismo sono repliche razionali e violente (anche senza l’uso della forza bruta) ai problemi del riscaldamento globale, della sovrappopolazione e della scarsità di risorse. Il prepperism è una vera e propria disciplina orientata al superamento di vari tipi di catastrofi ipotetiche (dalla guerra atomica alla desertificazione).

E la spettrologia?

La spettrologia, invece, è un modo di pensare che consiste nel rievocare progetti falliti nel bel mezzo delle rovine della società attuale o, nel mio caso, l’idea che tutta la morale umana provenga proprio da una dimensione alternativa, sovrumana e destinata a un fallimento di proporzioni globali.

Parliamo della cultura moderna. Come vedi il suo ruolo nell’alimentare l’illusione del dominio assoluto sulla natura?

Per quanto riguarda la cultura attuale ritengo che molte opere di autori/autrici abbiano contribuito a renderci più consapevoli di ciò (penso a Jeff VanderMeer, Thomas Ligotti, China Mieville, Reza Negarestani e Nick Land, a esempio). Tuttavia, la stragrande maggioranza dei prodotti culturali, soprattutto in Italia e in Europa, continua a essere una autocelebrazione in quanto specie superiore, anche quando si tratta di semplici commedie od opere di fantasia, come i cinecomic.

In che modo l’ecopessimismo cerca di sfidare questa illusione?

Sono più che pessimista. Mi sembra, infatti, che l’intera cultura (non solo quella attuale) sia un dispositivo mirato a preservare la nostra specie in una sorta di “bambagia spirituale”, nella quale siamo liberi di raccontarci tutte le favole che vogliamo.

D’altra parte, però, la nostra facoltà di astrazione iper-specializzata ci rende non solo “allucinati”, ma anche particolarmente capaci di prendere le distanze da noi stessi, dal nostro ambiente e dalle credenze individuali e collettive. Essere ecopessimisti - o anche solo pessimisti - significa proprio coltivare questo “spirito della distanza” (per dirla con Nietzsche), essere scettici nei confronti delle storie. Per certi versi, significa essere aridi, tanto per restare in tema.

Il “paradosso filosofico della wilderness” come si relaziona all’ecopessimismo?

Si può dire che la wilderness sia l’ecopessimismo personificato. Immaginate di essere un homo sapiens di duecentomila anni fa e di trovarvi nel bel mezzo di una prateria circondata da boschi. Predatori dotati di armi naturali decisamente più efficienti delle vostre potrebbero starvi spiando dai margini del bosco. Vi sentite deboli, impotenti, vulnerabili. Ma non è tutto. Il vero problema è il silenzio schiacciante, che ricopre il mondo intero come un velo quando non c’è vento e gli animali decidono di non farsi sentire. Il cielo è immenso, sconfinato, un’alterità totale. Ovunque si vada, la terra conduce verso l’ignoto. La notte è impenetrabile.

Le nostre esperienze nella natura selvaggia rispecchiano solo in minima parte questo antico stato di cose. Eppure, tutto ciò potrebbe prima o poi tornare. Niente luce elettrica, niente combustibili fossili, niente plastica. Un incubo, se ci si ferma a riflettere.

In che modo si può applicare l’ecopessimismo, o c’è speranza per un eco-ottimismo?

L’ecopessimismo non si traduce in pratiche dirette, ma in una “meta-riflessione” sulle attuali e future azioni. Essere ecopessimisti, a esempio, porta a valutare in modo diverso sia l’azione diretta sia la rappresentanza istituzionale di movimenti quali Extinction Rebellion (pur non svalutandone affatto l’importanza). Chi sostiene che ciò sia inutile scoprirà l’importanza del sospetto e della sopravvalutazione del nemico con leggi ingiuste contro i migranti climatici.

Molti pessimisti interpretano l’ecopessimismo come un “trionfo della morte,” giocando a fare i nichilisti, perché il pessimismo, di solito, è schierato per principio contro la natura, essendo questa la matrice di tutti i mali e, soprattutto, del male supremo in sé: la vita. Anche questo è un modo di tutelare il business as usual, crogiolandosi da privilegiati nella sofferenza altrui. Allo stesso modo, l’eco-ottimismo è pura follia, l’ennesimo modo di raccontarsi belle storie tipico della nostra specie.

La lezione più importante da trarre dall’ecopessimismo?

Che non c’è altro da fare se non percorrere i sentieri. In quanto specie evolutasi in poche centinaia di migliaia di anni e adattatasi a specifiche condizioni ambientali - idonee a un animale e di certo non a un “dio mortale” - non siamo in grado di cogliere il quadro generale, la totalità delle cose. Non possiamo fare altro che provare e riprovare e sperare che qualcosa, prima o poi, funzioni.

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