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Culture

Sud Italia: l’offerta culturale è (quasi) inesistente

Troppo spesso le Isole e il Meridione devono “sopravvivere” a livello artistico con risorse locali; queste aree raramente vengono prese in considerazione per l’organizzazione di eventi nazionali e internazionali
di Daria Costanzo
Tempo di lettura 9 min lettura
17 gennaio 2024 Aggiornato alle 19:00

Esiste un report, realizzato a luglio 2023 da Swg per Confcommercio, che ha raccolto una parte consistente del malcontento “isolano”; l’oggetto dell’indagine: l’offerta culturale in Italia, o meglio, le “abitudini di consumo culturale” in Italia che, tradizionalmente, nei mesi estivi si affinano, soprattutto più a Sud, nel Meridione, e nei territori “attraenti” per i turisti in ferie.

La lettura del report ci fa scoprire cose interessanti. Per esempio, che gli italiani sono grandi frequentatori di musei permanenti e siti archeologici (il 61% degli intervistati si dichiara “frequentatore non saltuario”); che teatro, arte e concerti rientrano tra le attività culturali preferite (rispettivamente con il 42%, 45%, 46% di appassionati tra i soggetti coinvolti); che, quasi inaspettatamente, sono i giovani della fascia 18-24 i più appassionati alla vita culturale, amanti del cinema, della musica, dei talk dal vivo (e delle serie tv in streaming, incluse nel sondaggio). Ma anche, e questo è meno inaspettato, che l’offerta culturale italiana viene percepita come insoddisfacente. Insufficiente o, addirittura, del tutto assente.

Si arriva però a una pagina, nello studio di Confcommercio e Swg, davanti cui davvero riesce difficile non sorprendersi. E non tanto perché presenta statistiche fuori dal comune, quanto per la ragione opposta e, cioè, l’ovvietà del risultato: l’insoddisfazione culturale italiana è frammentata, squilibrata; in effetti ingiusta.

Divisi su 5 colonne, gli abitanti di Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole si confrontano sullo stesso tema: l’offerta di attività culturali nella propria città. La colonna delle Isole è una sfilza di numerini rossi da capo a piedi: c’è insoddisfazione per i concerti di musica, per gli spettacoli di teatro (comici, di prosa, all’aperto), per i musei archeologici e (strano ma vero) persino delle cerimonie religiose. Per completezza di informazione, nella colonna del Sud, alla domanda sulle cerimonie religiose, un timidissimo numeretto, il 2 indicato in verde, rivela che la soddisfazione supera di poco il malcontento: è l’unico ambito, insieme a siti archeologici e concerti di musica leggera, che al Sud la scampa.

Che il dislivello sia tanto marcato, colpisce. Innanzitutto perché la retorica più diffusa è che il turismo meridionale sia traino di crescita e che l’offerta culturale sia una sua componente imprescindibile. D’altronde, lo stesso report nasce per questo motivo: la cultura è oggi un’industria, che ci piaccia o meno e per questo viene analizzata utilizzando termini come “consumo”, “consumatori” e “spesa media”.

La cultura è uno strumento che contribuisce a formare gli individui, le società. Che l’offerta dei territori venga percepita così scadente, e in modo plateale, scuote (o comunque dovrebbe scuotere), perché lì dove non c’è vita culturale, non può esserci speranza di cambiamento, né slancio creativo o di innovazione. Persino la partecipazione attiva dei cittadini viene a mancare, in un contesto culturalmente povero. L’impressione è che si stia tentando di desertificare un territorio già arido, nel silenzio e nel disinteresse generale.

Va detto, però, che i dati statistici di Confcommercio si basano inevitabilmente su una percezione, il che significa, a onor del vero, che rischia di esserci un certo distacco tra la realtà delle cose e l’interpretazione che se ne fa. Basti pensare allo scenario artistico - espositivo di Palermo, per esempio, in Sicilia, isola che da qualche anno a questa parte sembra essersi risvegliata dal torpore.

Per capire se questa percezione sia reale o meno, La Svolta ha parlato con alcuni addetti ai lavori del posto: persino per loro il divario persiste e l’insoddisfazione si sente. «Nelle isole, quello che manca è una visione organizzativa ambiziosa - ha detto Giuseppe Carli, critico d’arte pugliese e, da qualche anno, curatore di eventi d’arte contemporanea nella città di Palermo - Non è facile vedere da queste parti [in Sicilia e al Sud, ndr] mostre di artisti di una certa rilevanza storica, nazionale e internazionale. Le isole sono lasciate a organizzarsi facendo affidamento a risorse locali: artisti autoctoni, artisti che si sono formati in loco, o comunque personaggi che hanno sviluppato un certo legame con il territorio».

Il caso del Mac - Museo d’Arte Contemporanea di Gibellina, piccolo Comune della Valle del Belìce (Trapani) epicentro del terremoto del ’68, rispecchia in un certo senso questo sistema. Il Mac, intitolato a Ludovico Corrao (deputato del PCI e poi senatore, che aveva individuato nell’attività culturale un percorso di rinascita per la Valle del Belìce dopo il terremoto) ospita a oggi più di 400 opere dei maggiori esponenti delle avanguardie artistiche del ‘900 italiano.

Pur rappresentando oggi una realtà di punta nel panorama espositivo e museale del Sud Italia, la dinamica che ha portato alla fondazione del Mac rimane comunque la stessa: nato con la collezione del gallerista saccense Nino Soldano, è cresciuto nel tempo includendo le opere pittoriche di Mario Schifano realizzate a Gibellina, il lavoro del Gruppo Forma 1 (tra i cui fondatori Carla Accardi e Pietro Consagra, siciliani e sostenitori della “causa gibellinese”), e le opere degli esponenti della “Transavanguardia”, tra cui Mimmo Paladino, che proprio per Gibellina ha realizzato nel ’90 la Montagna di sale.

Fatta eccezione per le iniziative locali di Gibellina, che ancora oggi manifesta un forte legame con l’arte e con i movimenti artistici (anche attraverso eventi di richiamo internazionale come Images, festival di arti visive open air, o Photoroad, biennale di fotografia site-specific), in Sicilia la lungimiranza politica di Ludovico Corrao non ha avuto un grande seguito. E così anche nel resto delle isole.

«In Sicilia non ci sono più mostre rilevanti, e da anni ormai», ha spiegato Giuseppe Carli. Nel frattempo, però, spopolano le Experience, le mostre immersive e instagrammabili di artisti che hanno segnato in maniera indelebile la storia dell’arte. Van Gogh, Dalì, Kahlo, Picasso: le loro opere diventano oggetto di un’esperienza quasi di gioco, a volte anche interattiva, costruita grazie a mega-proiettori puntati alle pareti e con l’ausilio di animazioni digitali realizzate per l’occasione. Un fenomeno che in verità riscuote successo in tutta l’Italia, così come in Europa e oltreoceano. Nelle isole, però, l’effetto è paradossale: se in Sicilia, come anche in Sardegna, la mancanza di offerta culturale è tanto netta, c’è comunque spazio per attività che si avvicinano alla storia dell’arte solo in superficie, e la piegano piuttosto all’estetica dei social e dei suoi fruitori.

«Una mostra in formato “experience”, che tanto piace al pubblico e a chi organizza eventi in ambito culturale, non ci dà quello di cui abbiamo bisogno. Non ci arricchisce sul piano culturale; ci lascia poveri come prima di entrare», ha aggiunto Carli.

Il che innesca una dinamica, un circuito, che è difficile spezzare. Del resto, se proporre una mostra tradizionale di rilievo viene considerato oggi come un investimento a perdere, è forse perché lo è davvero: ai siciliani, o agli abitanti delle isole in generale, importa relativamente poco di scoprire la storia dell’arte o i movimenti artistici contemporanei; è probabile che non abbiano nemmeno gli strumenti per farlo. Le stesse esposizioni organizzate di volta in volta dentro i palazzi storici delle città siciliane come Palermo, o in altri spazi pubblici “insoliti”, come gli ospedali o l’aeroporto, non hanno il successo di pubblico sperato. Ma è un cane che si morde la coda; come ha spiegato Carli, «se non organizziamo mostre in Sicilia, sarà sempre peggio: il pubblico non evolverà mai, il disinteresse sarà sempre maggiore».

Facile pensare che si tratti di una questione economica. Le mostre experience instagrammabili”, per fare un esempio, attirano pubblico e quindi profitto; in più organizzarle costa poco, visto che quasi sempre le opere riproposte sono di dominio pubblico, e non servono grandi risorse di denaro per metterle in scena. Costi bassi, guadagni cospicui: in un contesto in cui la cultura è industria, sono queste le logiche che in effetti la muovono. E, in questo senso, territori periferici come la Sicilia, la Sardegna, e forse tutto il Sud in generale, non possono che uscirne svantaggiati. Il fattore economico è assolutamente centrale.

«Portare artisti di una certa caratura, in Sicilia, è complicato. Non ci sono soldi o, se ci sono, bisogna anticiparli in attesa di un rimborso a novanta giorni, che spesso non è nemmeno puntuale. Per un gallerista o un curatore, diventa una situazione pesante da gestire», ha spiegato Carli a La Svolta.

Insomma, la logica del profitto pregiudica lo scenario culturale delle isole che, per altro, risentono pure della loro distanza dal centro, il che riduce di netto il numero potenziale di fruitori. Basta questo per dimezzare, se non azzerare, le proposte culturali di un territorio? Per certi versi, sembra più una scusa.

«Ci sono molte realtà per loro natura poco turistiche, che pure sono in grado di offrire esposizioni, eventi di spicco». Pensiamo a Ferrara, e alla fervida attività culturale proposta da Palazzo dei Diamanti o al Castello Ostiense. Secondo il critico pugliese, «Sono eventi, quelli, organizzati non per i turisti, o meglio non soltanto, ma per la gente che ci vive. Per la Regione»

Questo è il tipo di attenzione che in Sicilia manca. Sull’isola, la chiusura del pubblico va di pari passo con quella delle istituzioni, che sull’arte non vogliono investire. Esauritasi l’esperienza di Ludovico Corrao, e dei politici come lui che hanno creduto nell’arte come punto di svolta, oggi le classi politiche si disinteressano alla cultura, se non quando si rivela un valido mezzo di profitto. Ma è, questa, una precisa direzione politica che riscontriamo anche a livello nazionale: la scelta di ridurre le ore di storia dell’arte a scuola, per esempio, rientra precisamente in questo schema di indifferenza.

È chiaro: nei territori più “difficili” (come del resto sono le isole), l’impatto di certe scelte politiche si fa sentire ancora più forte. Perché voltare le spalle alla cultura, dove già manca da anni se non da decenni, significa tracciare un percorso di degrado sempre più significativo. Ci si chiede, a questo punto, se la voce dei consumatori delusi sarà sufficiente, se sarà forte abbastanza.

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