Diritti

Con un pizzico di fortuna non si fa nulla

Non basta la buona sorte per fare soldi e avere successo. Certo, ogni tanto è utile per dare quella svolta positiva al nostro cammino, ma c’è di più. Servono idee, capacità, impegno; capire quando è il momento giusto
Credit: Cottonbro Studio
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22 dicembre 2023 Aggiornato alle 06:30

“I più fortunati devono aiutare chi sta peggio”. Quante volte hai sentito questa frase immensamente retorica? L’ultima volta (ti aiutiamo noi) nel video nel quale Chiara Ferragni si scusa per l’ormai celeberrimo Pandoro-gate.

L’uso dell’espressione “fortunato” per intendere chi ha più soldi è un tic linguistico fastidioso, perché trasmette l’idea che il successo economico sia una variabile collegata semplicemente alla buona sorte, come se si fosse trovata una valigetta piena di contanti per strada o si fosse giocata la combinazione giusta al SuperEnalotto.

Certo, in Italia può essere considerata particolarmente azzeccata, visto che è uno dei Paesi d’Europa nei quali le condizioni di partenza (famiglia, istruzione, proprietà immobiliari) contano di più, ma è pur sempre una semplificazione irritante.

La strada per fare soldi è spesso (non sempre, ovvio) lastricata di lavoro duro, idee, capacità di metterle in atto, velocità nel cogliere le opportunità, scelta dei tempi, intelligenza nel circondarsi delle persone giuste. Non basta essere fortunati per condurre bene un’azienda, comprare o vendere prodotti finanziari al momento opportuno, cambiare lavoro (magari lasciandone uno fisso per la sfida della libera professione) quando se ne presenta la possibilità e, sì, anche per creare un piccolo impero social da decine di milioni di follower.

Poi c’è anche la buona sorte, ma quando si presenta o quando ce l’hai per nascita devi saperla cogliere e non c’è dubbio che sperimentare nuove vie sia più facile per chi ha le spalle coperte.

E sia chiaro, qui non stiamo parlando di meritocrazia, che sappiamo essere un problema italiano: l’indice annuale elaborato dal Forum della Meritocrazia insieme all’Università Cattolica di Milano ci colloca all’ultimo posto in Europa, dietro alla Polonia e mostruosamente distanti dai Paesi top come la Finlandia.

E nemmeno di mobilità sociale, ossia della possibilità che, a seconda del talento, la qualità economica della propria vita non sia la riproduzione più o meno fedele di quella dei nostri padri o dei nostri nonni. Anche qui sappiamo perfettamente che l’Italia è ingessata e le analisi del World Economic Forum testimoniano che siamo in coda alla lista dei Paesi industrializzati. Se nasci in quella classe sociale, sei bene o male destinato a rimanerci.

Fatte tutte queste premesse, “fortunato” in bocca a un’imprenditrice (e che ti piaccia o no, Ferragni si può qualificare così) è un’espressione orrenda, che alimenta invidia e diffidenza quando non odio per la capacità di intraprendere, oltre a puzzare di superstizione e di finto understatement. Quasi come se ci si vergognasse a dire che si è stati bravi, che si è stati in grado di costruire un’azienda o una carriera.

Forse avremmo bisogno di più rivendicazioni orgogliose delle proprie capacità e del proprio impegno, anche solo come esempio. Ipotesi di frase più centrata: “Certo, sono stata fortunata, ma sono anche stata in grado di creare qualcosa. Voglio mettere a disposizione di chi è in difficoltà una parte di quello che ho guadagnato”. Più realistica, per evitare illusioni, per evitare gli “insomma, se avessi avuto un pizzico di fortuna in più…”. Perché se anche l’aveste avuta, da sola non sarebbe bastata.

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