Diritti

Figlio mio, ecco perché i soldi non fanno la felicità

Vestiti firmati, cellulari costosi: pubblicità e social ti fanno credere che se non li hai, allora sei infelice. Come ne usciamo? Ripartiamo dalle relazioni
Credit: Tatiana Syrikova

«Che poi a pensarci bene un milione di euro mica sono poi così tanti». Così commentava l’altro giorno mio figlio, mentre eravamo a tavola. Un brivido mi è corso per la schiena, mentre pensavo come fosse possibile che un ragazzino di 12 anni potesse pensare questo. Che con un milione di euro non vivi mica benissimo. Che non bastano. Non bastano per essere felici.

Non ricco uguale infelice

D’altronde, il tema dei soldi è una costante nelle parole di mio figlio e anche dei suoi coetanei. Gli argomenti più ricorrenti sono scarpe firmate costosissime, oggetti firmati costosissimi, stipendi di calciatori da milioni di euro, centinaia di migliaia di euro guadagnati da gente famosissima con un post e via dicendo. Da quanto dicono traspare per la ricchezza un’ammirazione assoluta, così come verso una vita fatta appunto di viaggi di lusso, case con piscina e macchine ipercostose.

Da dove viene questo immaginario non è difficile capirlo. Le pubblicità di macchine e di altri beni da milioni di euro o poco meno, i video dove YouTuber di vario tipo parlano di lussi e ricchezza, le storie dei calciatori e dei personaggi famosi. Insomma la società intera dice loro questo: se non sei ricco sei un fallito, un poveraccio. Soprattutto, sarai infelice.

Il nesso felicità-ricchezza è tra quelli più penosi, perché normalmente la felicità di un bambino non si misura con la quantità di soldi, a parte ovviamente il necessario, ma con la qualità delle sue relazioni affettive, in famiglia e fuori, la possibilità di giocare, di stare all’aperto e così via. Tutto questo oggi è stravolto e colpevoli sono certo tutti coloro che cercano di convincere i nostri figli del contrario.

Quello che noi genitori segretamente condividiamo

E noi? Quanto contano le colpe di noi genitori rispetto a questo? Mi sono a lungo interrogata in proposito. Da un lato, in parte mi autoassolvo. Sinceramente, è veramente difficile come genitore contrastare una società e un immaginario sociale così sfacciatamente incentrato sui soldi e sul binomio libertà-soldi, felicità-soldi, leggerezza-soldi. Ho cominciato a proibire a mio figlio di parlare di certi argomenti, come l’ossessione per le scarpe costosissime, ma non so quanto questo abbia tolto dalla sua mente quel desiderio.

Dall’altra, sono invece arrivata a pensare che sicuramente una parte di responsabilità ce l’abbiamo noi. Perché diciamocela tutta: anche noi siamo terrorizzati dal rimanere senza soldi, anche noi pensiamo che con il denaro si possano comprare molte cose, magari meno effimere delle scarpe, ma ancora più sostanziali, come un viaggio, la possibilità di fare sport, l’opportunità di non stare in città quando queste si fanno bollenti.

Se dunque noi pensiamo questo è probabile che i nostri figli ascoltino, assorbano e - se pure si concentrano su beni per noi poco significativi - condividono con noi la stessa convinzione che con i soldi si possa accedere a beni che ti rendono un po’ (o molto) più felice. Tra l’altro, se tu chiedi loro: «Ma allora la famiglia, gli amici, queste cose qui quanto contano?», rispondono pronti che, certo, contano moltissimo «ma vuoi mettere con la bella vita con gli amici, la famiglia e tantissimi soldi». Qualcosa che forse segretamente approviamo.

Degrado dei beni comuni e infelicità

Perché accade questo, come mai anche noi siamo finiti tristemente a essere dipendenti da un immaginario dove la felicità non si lega più alla qualità dei rapporti ma alla quantità dei conti correnti lo spiega il prof. Stefano Bartolini nel suo illuminante saggio Ecologia della felicità (Aboca). La sua tesi è tanto semplice quando valida per leggere il presente. A spingerci verso i soldi (o verso il desiderio dei soldi) è il degrado dei beni comuni, con cui si intendono moltissime cose, sia morali che fisiche. Dal senso di comunità alla possibilità di giocare in una piazza senza macchine e piena di verde. Dalla gioia dello stare insieme alla condivisione di un territorio, cittadino o non, che sia davvero di tutti e curato per tutti.

Purtroppo, il degrado dei beni comuni, causato dalla privatizzazione del mondo, dalla manipolazione del marketing, dall’ossessione per il possesso, dall’incapacità delle amministrazioni di tutelare gli spazi per tutti, come le strade e le piazze, unita negli ultimi anni agli effetti violenti del cambiamento climatico, fa sì che le persone ricerchino sempre più la felicità nel privato e, appunto, nel possesso. Che, ripeto, significa possibilità di muoversi, di avere una casa fuori città e via dicendo.

Purtroppo, però, l’aumento dei consumi, oltre a non generare più felicità, produce più gas serra che aumenta ancor più il degrado dei beni comuni, in un circolo difficile da spezzare.

Ripartire dalle relazioni

Come se ne esce? Ripartendo dalle relazioni e da una cultura delle relazioni. Qualcosa che deve essere insegnato in famiglia, a scuola, ma che dovrebbe riprendere spazio anche nell’immaginario collettivo. Ne gioverebbe, paradossalmente - oltre a bambini e ragazzi - tutta la società, persino la politica, che inneggia alla crescita e all’aumento del Pil ma che in realtà non potrà mai dare ciò che promette perché, banalmente, i soldi non ci sono.

Anche lei avrebbe qualcosa da guadagnare - se non fosse dilaniata da conflitti di interesse - da una protezione dei beni comuni e da una rinascita dei valori della condivisione, dello scambio gratuito e da una cultura delle relazioni.

È partendo da qui che si può chiedere a un bambino o a un ragazzo di non comprare le scarpe firmate. Dopo, cioè, avergli garantito una qualità molto alta degli affetti e delle amicizie, così come la possibilità di sperimentarle in ambiti e luoghi che non richiedano possesso, né carissimi biglietti di ingresso (ormai pochi, purtroppo). Solo in questo modo cesserà la paura di perdere il denaro, che poi è soprattutto - per noi e per loro - la paura di restare soli, senza sostegno, senza protezione.

Certo, la controcultura del possesso e del lusso è fortissima. Ma dobbiamo comunque provarci e, considerazione banale ma vera, farlo insieme, anzi tutti insieme.

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