Diritti

Israele: i lavoratori migranti non riescono a tornare a casa

Sono circa 115.000, secondo l’Autorità israeliana per la popolazione e l’immigrazione: molti non possono lasciare il Paese perché si sono indebitati per pagare le tasse di collocamento
Lavoratori agricoli tailandesi al lavoro in un campo di cavoli in una fattoria nel sud di Israele.
Lavoratori agricoli tailandesi al lavoro in un campo di cavoli in una fattoria nel sud di Israele. Credit: Miriam Alster/Flash90/Redux
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
2 novembre 2023 Aggiornato alle 07:00

In Israele ci sono 115.000 lavoratori stranieri, secondo l’Autorità israeliana per la popolazione e l’immigrazione. La maggior parte sono badanti, altri lavorano nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia. Da quando il gruppo militante palestinese di Hamas, a partire dal 7 ottobre, ha attaccato Israele, molti dei lavoratori migranti che vi risiedono temono di essere coinvolti negli attacchi, ma non sembrano avere altra scelta che rimanere lì. Si sarebbero indebitati a causa delle tasse di reclutamento che hanno dovuto pagare alle agenzie del lavoro, che ammontano anche a decine di migliaia di dollari. E ora non possono tornare a casa dalle loro famiglie. Le testimonianze raccolte dal Guardian parlano di pagamenti fino a 20.000 dollari e di persone costrette a chiedere prestiti per coprirli.

Una donna filippina che lavorava in Israele, nel kibbutz Be’eri, a quasi 5 chilometri da Gaza, ha raccontato al Guardian che, nonostante lei sia sopravvissuta all’attacco di Hamas, alcuni dei suoi colleghi sono rimasti uccisi. Per salvarsi, si è nascosta insieme al suo datore di lavoro di 88 anni in un rifugio antiaereo, dove sono rimasti senza cibo né acqua per 18 ore. Poi, le Forze di Difesa Israeliane li hanno salvati. Tuttavia, nonostante il trauma, la donna non potrà tornare a casa dalla sua famiglia.

Anche se l’Organizzazione Internazionale del Lavoro prevede che siano i datori di lavoro a pagare tutte le tasse finanziarie legate all’assunzione di lavoratori migranti dall’estero, in Israele le tasse di collocamento sono a carico dei lavoratori stessi. Nei settori della sanità e dell’agricoltura israeliani c’è carenza di lavoratori e molti vengono sfruttati e costretti a lavorare per lunghe ore senza pause. «Facciamo follie per ottenere questi lavori a causa del buon salario», ha detto al Guardian un lavoratore filippino, che riceve uno stipendio circa tre volte superiore a quello che guadagnerebbe in Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita e il Kuwait, ma spende fino a 20 volte di più per le spese di reclutamento.

Secondo Nicholas McGeehan, direttore co-fondatore della ONG per i diritti umani FairSquare Projects, parla di un rischio sproporzionato per i lavoratori migranti costretti a lavorare in queste condizioni, che invece dovrebbero essere protetti dal Governo: «In passato, i lavoratori agricoli migranti sono stati costretti a continuare a lavorare durante gli attacchi missilistici da Gaza. […] Il fatto che così tanti lavoratori migranti siano stati coinvolti nei massacri del 7 ottobre si spera possa ricordare alla popolazione israeliana che ci sono altre minoranze all’interno della loro popolazione che meritano protezione e preoccupazione».

Tra i 220 ostaggi rapiti da Hamas, più della metà hanno passaporti stranieri. Si stima che siano circa 135, provenienti da 25 Paesi diversi. Secondo il Governo israeliano la maggior parte, circa 54, proviene dalla Thailandia, una delle maggiori fonti di manodopera migrante nel Paese, con circa 30.000 lavoratori impegnati nel settore agricolo. Tra coloro che sono stati uccisi da Hamas, molti provenivano da famiglie rurali dell’Asia, perlopiù povere. Almeno 33 cittadini thailandesi sono morti, secondo le autorità thailandesi, oltre a 4 di origine filippina e 10 del Nepal: in totale, sarebbero morti circa 50 lavoratori migranti durante gli attacchi di Hamas.

La Cnn ha parlato con un agricoltore thailandese che stava lavorando nel kibbutz Holit, una comunità agricola vicino alla Striscia di Gaza, quando Hamas ha sfondato le difese del confine israeliano. Un uomo l’ha aggredito e l’ha accoltellato. L’avevano dato per morto. Ora gli rimangono le cicatrici di quell’attacco.

Yahel Kurlander, un’accademica del Tel-Hai College nel nord di Israele che si occupa di questioni legate al lavoro nel settore agricolo israeliano, ritiene che «nessun lavoratore - israeliano o tailandese - dovrebbe essere usato come carne da macello». Il Governo thailandese «sta chiedendo loro di evacuare e lasciare Israele, ma c’è anche pressione da parte israeliana, che dice loro: “Abbiamo bisogno di voi, restate, vi daremo soldi extra per questo”», ha spiegato Kurlander alla Cnn.

I gruppi che sostengono i lavoratori migranti stranieri, come Aid for Agricultural Workers, hanno sottolineato che molte di queste persone sono costrette ad affrontare “sfide estreme”, mentre in Israele è ancora business as usual. Ovvero: tutto funziona come al solito, nonostante gli scontri e le difficoltà che questi lavoratori incontrano ogni giorno.

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