Futuro

Sostenibilità: ecco perché il piano green “Apple 2030” è in pericolo

La filiera della Mela punta a essere carbon neutral in 7 anni. Ma la sua catena di approvvigionamento, situata soprattutto in Asia, potrebbe essere compromessa dagli eventi meteorologi estremi sempre più frequenti
Credit: AP Photo 
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16 ottobre 2023 Aggiornato alle 15:00

Ormai da un decennio, Apple sta cercando di rendere la sua catena di fornitura globale più in eco-sostenibile. Il Ceo dell’azienda, Tim Cook, ha ribadito in più occasioni che l’attenzione all’ambiente rappresenta un pilastro essenziale del marchio. A conferma di ciò, il lancio del nuovo spot pubblicitario in cui Cook dialoga con Madre Natura (interpretata dall’attrice Olivia Spencer) che lo incalza domandando che cosa stia facendo in concreto l’azienda per garantire il rispetto del Pianeta. Un’operazione di marketing vincente, che permette alla Apple di presentare con non poca fierezza i traguardi “green” raggiunti negli ultimi anni.

Nel 2020, l’azienda ha dichiarato di aver raggiunto la neutralità carbonica per le sue operazioni aziendali in tutto il mondo e di aver ridotto le emissioni del 45% rispetto ai livelli del 2015, ottenendo al tempo stesso un aumento dei ricavi del 65%. Ma non finisce qui: la nuova strategia Apple 2030 punta ancora più in alto e promette che, a fronte di un ulteriore taglio delle emissioni pari al 75%, entro il 2030 tutti i prodotti Apple avranno un impatto climatico netto zero. In altre parole, entro i prossimi 7 anni l’intera filiera dovrebbe diventare carbon neutral.

Quello di Apple è innegabilmente un progetto ambizioso e in continua evoluzione. E tuttavia non mancano le contraddizioni. Nonostante i toni trionfanti utilizzati da chi definisce quella del gigante della Silicon Valley una “rivoluzione green” senza rivali nel settore tech, è impossibile non accorgersi della presenza di uno scheletro piuttosto ingombrante nell’armadio: la sostenibilità, sul lungo periodo, della sua catena di produzione. Se è indubbio che Apple stia lavorando attivamente da anni per ridurre la sua impronta di carbonio, non è un aspetto secondario che l’effettività della sua supply chain, composta da oltre 400 strutture localizzate in quasi 30 Paesi, sia seriamente minacciata dagli effetti del cambiamento climatico.

Come menzionato da un articolo di Bloomberg, che si basa su dati pubblicamente rilasciati dall’azienda, le regioni con la più alta concentrazione di produttori (Asia, India e Giappone) sono allo stesso tempo tra le più vulnerabili alla crisi climatica. Molte di queste zone sono destinate a subire disastri naturali più intensi a causa del riscaldamento globale, come alluvioni, ondate di calore, cicloni tropicali. Va da sé che non si tratta di un problema che interessa esclusivamente Apple: altri colossi globali nel settore dell’elettronica come Samsung e Sony acquistano da fornitori simili.

Resta il fatto che alcuni dati contenuti nel Marsh McLennan Flood Risk Index (riportati sempre da Bloomberg) sono piuttosto significativi. Basti pensare che al momento circa il 14% della catena di produzione si trova in regioni caratterizzate da un rischio alluvioni categorizzato come “molto alto”. Con un aumento di 3,5 gradi centigradi della temperatura media globale, scenario che secondo le stime dell’Ipcc potrebbe materializzarsi entro la fine di questo secolo, ben il 69% delle strutture sarebbe ad alto rischio.

Quello della maggiore vulnerabilità agli eventi climatici non è l’unico elemento da prendere in considerazione. La composizione del mix energetico di queste aree costituisce una parte altrettanto importante dell’equazione. Infatti, sebbene in ottemperanza della strategia Apple 2030 l’azienda dovrebbe esigere dai suoi fornitori di seguire il proprio percorso verso la neutralità carbonica entro il 2030, molti dei Paesi in cui Apple è più presente dipendono in gran parte dai combustibili fossili per la generazione di energia elettrica, con il carbone che a oggi rappresenta più del 60% del totale in Cina e Indonesia e quasi il 75% in India.

Si tratta di una verità molto scomoda, conosciuta agli addetti ai lavori con il nome di carbon leakage, un fenomeno che spinge la maggior parte delle aziende occidentali (Apple compresa) a delocalizzare le proprie attività in Paesi carbon intensive, caratterizzati per questo da standard ambientali meno rigidi. In queste regioni del Sud Globale non è pertanto difficile immaginare come un tasso di urbanizzazione sempre più elevato e una crescita demografica che appare quasi inarrestabile contribuiranno in misura sempre maggiore a un aumento della domanda di energia e delle emissioni climalteranti, ostacolando così il raggiungimento dei target climatici.

Questo quadro delinea una situazione piuttosto paradossale, che complica radicalmente i piani di Apple di rendere più ecocompatibile la sua rete di produzione: in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, la geografia delle proprie supply chain costringerà l’azienda della mela (e altre multinazionali) a fare i conti con gli stessi effetti del cambiamento climatico che lei stessa sostiene di voler combattere.

Se è vero che nessuna azienda può pretendere di essere al 100% resiliente di fronte alle conseguenze diffuse e spesso imprevedibili che derivano dall’operare “nell’era dell’ebollizione globale” (per usare le parole di Antonio Guterres, segretario delle Nazioni Unite) questa storia restituisce la complessità delle sfide, e delle contraddizioni, che molte multinazionali si troveranno ad affrontare nei prossimi decenni, e delle trasformazioni profonde che questi mutamenti renderanno necessarie per evitare danni ingenti all’economia e agli ecosistemi.

Nonostante i continui tentativi dell’essere umano di soverchiare la natura e della fallace illusione di poterla controllare, nessuno resterà illeso dagli effetti che la crisi climatica produrrà su di essa: neppure chi, seppur spinto da un opportunismo economico che ben poco ha a che fare con istanze ambientaliste, più si adopera per contenerla.

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