Ambiente

Loss & Damage e Global Stocktake: i temi su cui si giocherà la Cop28

A poco più di due mesi dalla Conferenza sul Clima delle Nazioni Unite, conosciamo meglio quali sono le questioni principali che catalizzeranno l’attenzione durante i negoziati
Credit: EPA/ALI HAIDER
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18 settembre 2023 Aggiornato alle 20:00

Manca sempre meno all’inizio della Cop28, che si terrà tra fine novembre e inizio dicembre a Dubai.

La fase primordiale dei negoziati che, come ogni anno, ha avuto luogo a Bonn, città che ospita il Segretariato dell’Onu sul Cambiamento Climatico (Unfccc, United Framework Convention on Climate Change), ha evidenziato che due saranno i temi principali sui quali si giocherà la 28esima edizione della Conferenza delle Parti, finora gli unici davvero in grado di attirare l’attenzione dei media tradizionali e mobilitare gran parte dei gruppi ambientalisti: parliamo del cosiddetto Global Stocktake (Gst) e dell’ auspicata operazionalizzazione del fondo sulle perdite e danni (Loss & Damage).

Partiamo dal Global Stocktake, che sarà presentato per la prima volta proprio alla Cop28 di Dubai.

Istituito ai sensi dell’Articolo 14 dell’Accordo di Parigi già nel 2015, ha lo scopo di “valutare i progressi collettivi verso il raggiungimento dei target dell’Accordo e i suoi obiettivi a lungo termine”.

Tali obiettivi includono “la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra per limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi e, idealmente, di 1.5 gradi” nonché “l’allineamento degli investimenti in finanza climatica nella misura e nelle proporzioni necessarie ad affrontare la crisi climatica”.

In altre parole, il Global Stocktake non è altro che un meccanismo di revisione quinquennale, creato al fine di valutare il livello di ambizione dei target di mitigazione stabiliti durante la COP21 di Parigi e verificarne l’adempimento da parte degli Stati membri, in un’ottica di contenimento del riscaldamento globale entro i 1.5 °C.

La ratio di questo strumento di monitoraggio è infatti quella di offrire ai governi degli Stati firmatari un quadro di riferimento, una sorta di “inventario delle emissioni globali”, da consultare per indagare l’efficacia dei rispettivi piani nazionali sul clima (noti come nationally determined contributions o NDCs) e per assicurare un livello di ambizione sempre maggiore nell’elaborazione e nell’implementazione di politiche climatiche efficaci e lungimiranti.

A questo proposito, nonostante a Bonn i rappresentanti degli Stati siano riusciti ad accordarsi sulla struttura del testo da portare al tavolo dei negoziati in vista della prossima Cop, tutto fa pensare che le tensioni tra Nord e Sud Globale persisteranno anche a Dubai, soprattutto sul tema della responsabilità.

I Paesi del Sud rimarcano infatti l’importanza di includere nel bilancio finale del Global Stocktake anche le emissioni storiche di gas serra, vale a dire tutte quelle emissioni riconducibili a processi di industrializzazione tipicamente occidentali che hanno cominciato a produrre i loro effetti ben prima della firma dell’Accordo di Parigi nel 2015.

Tuttavia, sul piano politico, è difficile, se non impossibile, credere tale richiesta verrà recepita dai Paesi del Nord, spesso restii a fare i conti con il fatto di aver contribuito, in maniera preponderante, all’innalzamento della temperatura media globale.

A rendere la situazione ancora più delicata, la pubblicazione recente del rapporto di valutazione delle Nazioni Unite sullo stato di attuazione degli impegni di Parigi, che ci mette ancora una volta dinnanzi a una triste constatazione: siamo fuori strada, e di molto.

Per evitare il superamento dei limiti planetari e dei cosiddetti tipping points serve un’azione rapida e coordinata, una trasformazione sistemica del nostro apparato socio-economico, che si traduca nel più breve tempo possibile nel phase out dai combustibili fossili e nello stop di tutti i sussidi inquinanti.

Per contenere le temperature medie globali entro i fantomatici 1.5 gradi bisogna tassativamente tagliare le emissioni del 43% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019, e del 60% entro il 2035. È chiaro che si tratta di un obiettivo ambizioso, ma conosciamo bene la ricetta, abbiamo tutte le conoscenze tecniche del caso e soprattutto disponiamo di tutti gli ingredienti indispensabili per realizzarla. Tranne uno, l’ingrediente supremo, che a oggi somiglia ancora a una chimera: la volontà politica di chi ci governa.

Veniamo ora al Loss & Damage, altro tema caldo, che da ormai un anno ricopre un ruolo di primo piano nel dibattito sui negoziati per il clima.

Sebbene non ci sia ancora una definizione ufficiale nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento (Unfccc), l’espressione è generalmente associata ai potenziali impatti negativi del cambiamento climatico che continuano a interessare i paesi in via di sviluppo anche una volta che numerose misure di mitigazione e adattamento siano già state esplorate e attuate.

In particolare, il concetto di L&D sottolinea l’inevitabilità e l’irreversibilità di alcuni effetti indotti dal clima, e pertanto l’importanza di istituire un sistema basato su compensazioni di tipo economico a beneficio degli attori più vulnerabili, le cosiddette reparations.

In verità, quello di Loss & Damage è un termine ombrello, che comprende di fatto una gamma piuttosto vasta di impatti, alcuni dei quali possono essere quantificati ed espressi in termini monetari, come danni alle infrastrutture o alla produzione agricola, e altri che sono invece generalmente descritti come “perdite non economiche” (in inglese, “non-economic losses”), quali la perdita del patrimonio e dell’identità culturale.

Durante la Cop21 di Parigi, il concetto di L&D è stato ufficialmente incorporato nella decisione finale dell’accordo.

A tal proposito, cruciale il fatto che a esso è stato dedicato un articolo ad hoc (art.8), determinando la nascita di quello che è a oggi a tutti gli effetti considerato come il terzo pilastro dell’azione per il clima dopo mitigazione e adattamento.

Alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, il Fondo Perdite e Danni è stato finalmente istituito sotto le premesse dell’Accordo di Parigi. Ciò nonostante, alla vigilia dei prossimi negoziati, molti sono i dubbi che persistono quanto alle modalità di finanziamento e all’individuazione dei beneficiari o alla valutazione delle rispettive vulnerabilità dei recipienti: tutti gli aspetti sostanziali e tecnici rimangono ancora da definire.

Alla conferenza di Bonn, un Comitato di transizione” composto da 24 membri – 14 dei quali in rappresentanza di Stati del Sud del Mondo – si è riunito per stilare una tassonomia delle perdite e dei danni compensabili, e per fornire raccomandazioni sui vari nodi da sciogliere per rendere operativo lo strumento. Su tutte, le questioni principali da dirimere sono senz’altro la struttura istituzionale del fondo (importante soprattutto per capire l’attribuzione delle responsabilità, la loro quantificazione nonché la definizione del concetto di liability); l’identificazione delle fonti di finanziamento nonché l’armonizzazione del nuovo fondo con i meccanismi preesistenti di finanziamento per i Paesi in via di sviluppo.

Cosa possiamo dunque realisticamente aspettarci dalla Cop28?

Sicuramente, i giornali titoleranno ancora che questa Cop sarà l’ultima occasione utile per salvare il mondo dal collasso climatico. Sicuramente, ci saranno polemiche sul valore etico e politico di prendere parte all’evento, data anche l’attribuzione della presidenza a Sultan Al Jaber, Ceo della Abu Dhabi National Oil Company, una delle compagnie petrolifere più potenti al mondo.

Quanto alle decisioni che verranno effettivamente prese in materia di Global Stocktake e Loss and Damage, molto dipende, come sempre, dalla propensione dei singoli Stati di scendere a compromessi.

È questo il prezzo da pagare per una macchina negoziale come quella della Conferenza delle Parti, il cui quadro istituzionale, organizzato secondo un modello di partecipazione tipicamente bottom-up (dove i suoi attori possono decidere in autonomia quali impegni sottoscrivere) sacrifica l’urgenza di raggiungere accordi più ambiziosi in nome della volontà di ottenere la ratificazione quasi universale degli Stati in sede di votazione.

Va da sé che ciò significa accontentarsi di accordi al ribasso spesso insoddisfacenti e lacunosi, caratterizzati tuttavia da un potenziale maggiore di fattibilità e implementazione.

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