Diritti

Australia, violenza ostetrica: l’indagine del “Metoo del parto”

L’inchiesta dedicata ai “traumi alla nascita” (in udienza a Sydney da lunedì) ha ricevuto oltre 4.000 testimonianze. Tra gli abusi descritti: mancanza di consenso informato e incompetenza clinica
Credit: Giseile seidel
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
6 settembre 2023 Aggiornato alle 13:00

4.000 risposte in pochi giorni. È il record registrato dall’indagine sulla violenza ostetrica in New South Wales, che sta esaminando la prevalenza, le cause e le soluzioni ai tassi di traumi al momento del parto (che colpiscono 1 donna su 3) e che nel suo primo giorno di udienza a Sydney, lunedì 4 settembre, è stata descritta come un momento “metoo” per le madri australiane.

”[L’ostetrica] mi ha rotto le acque quando ha detto che dovevamo avere questo bambino oggi perché non aveva tempo domani”. “Quando il medico ha iniziato a tagliarmi ho potuto sentire tutto”. “Mi è stato mostrato un rischio pari a zero… Non mi è mai stata data la possibilità di fornire il consenso informato”.

Quelle ricevute sono soprattutto testimonianze individuali di donne che hanno descritto nel dettaglio la mancanza di consenso, inadeguato sollievo dal dolore e incompetenza clinica. Frasi che abbiamo già sentito, storie simili eppure tutte uniche e diverse. Esperienze individuali che compongono un fenomeno sistemico, ma che sono particolarmente significative in Australia, “uno dei Paesi ad alto reddito in cui c’è spesso resistenza nel riconoscere l’esistenza della violenza ostetrica”, non inclusa nel Piano nazionale per porre fine alla violenza contro le donne e i bambini 2022-2032.

Lo spiegava alla fine dello scorso novembre lo studio Dehumanized, Violated, and Powerless: An Australian Survey of Women’s Experiences of Obstetric Violence in the Past 5 Years, che ha intervistato più di 8.000 donne australiane riguardo le loro esperienze di parto nel 2019, scoprendo che 1 su 10 ha denunciato violenza ostetrica. Le donne più giovani, con un reddito inferiore, senza istruzione terziaria, identificate come aborigene o che non avevano un partner avevano riferito più frequentemente episodi di violenza ostetrica.

Una delle autrici della ricerca era la professoressa Hannah Dahlen della Western Sydney University, che lunedì ha parlato durante la prima udienza dell’inchiesta: «No significa no, tranne apparentemente durante il parto, ed è ora di cambiare la situazione. […] Questo è il “metoo” del parto».

L’inchiesta ha raccolto testimonianze di donne a cui non vengono fornite informazioni complete sui pericoli e sulle complicazioni che possono verificarsi durante il parto, il che limita la loro capacità di dare un consenso informato.

«Il Royal Australian and New Zealand College of Obstetricians and Gynaecologists (Ranzcog) ha detto che non possiamo informare le donne su tutti i pericoli associati alla nascita, [ma] dobbiamo smettere di infantilizzare le donne - ha dichiarato Amy Dawes, presidente dell’Australasian Birth Trauma Association rispondendo all’intervento del dottor Jared Watts, board director del Ranzcog - Perché non ne parliamo prima che le donne entrino nella sala parto?»

«L’abuso e il maltrattamento delle donne incinte e delle persone nelle strutture sanitarie di maternità è un evento normalizzato ed è radicato nella cultura e nella pratica - ha detto al comitato la dottoressa Bashi Kumar-Hazard (University of Sydney), che ha spiegato come in casi estremi la violenza ostetrica possa spingere le donne all’autolesionismo - Abbiamo avuto clienti e donne che hanno commesso o tentato il suicidio, abbiamo visto donne rifiutare i loro bambini».

Tutti sono concordi che a fare la differenza potrebbe essere la “continuità delle cure”, dove una donna ha accesso allo stesso professionista sanitario durante la gravidanza e il parto, un elemento che ridurrebbe significativamente i tassi di trauma alla nascita e che, dicono gli esperti, dovrebbe essere ampliata.

Eppure, secondo lo studio, “poco meno della metà delle donne (48%) hanno risposto ‘sì’ o ‘forse’ alla domanda se hanno ricevuto negli ospedali pubblici un’assistenza maternità di natura frammentata. Il 21% delle donne ha avuto continuità di cura con un’ostetrica attraverso un ospedale pubblico e il 15% ha avuto continuità di cura con un medico, per lo più situato in ospedali privati”.

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