Il manifesto per dire no alla violenza ostetrica e ginecologica

Un manifesto. Un movimento. Una proposta di legge. #ANCHEAME è tutto questo e anche di più. È un gruppo di 14 donne che si sono unite per colmare un vuoto legislativo intorno a un tema che esiste da sempre, ma solo ora riesce, a fatica, a emergere:la violenza ostetrica e ginecologica. Tre giorni fa è natala paginaInstagram, «un posto in cui veicolare le esperienze e dare strumenti informativi, per far comprendere in primis che cosa sia questo tipo di violenza», spiega allaSvoltaFrancesca Bubba, divulgatrice e attivista per i diritti della maternità. Dopo i fatti del Pertini, in cui un neonato è morto tra le braccia della madre, stremata dal parto, mentre lo stava allattando, Bubba ha sentito l’urgenza di occuparsi di qualcosa che, ufficialmente, ancora non esiste: «Sappiamo che èuna forma di violenza sommersache è caratterizzata da sfaccettature diverse e quasi invisibili, che hanno reso per anni difficilissima la sua intercettazione. Da quando è uscitoil manifesto, abbiamo ricevuto migliaia di testimonianze di dolore sminuito, normalizzato o anche ridicolizzato da parte del personale sanitario e da chi opera negli spazi definiti a sostenere la maternità». Una settimana dopola tragedia del Pertini, «avevamo già la bozza della proposta di legge in mano:per noi è stata un’impellenza, più che una necessità», spiega Bubba, che l’ha stilata insieme ad altre 13 professioniste, influencer e attiviste. Si tratta della creatorIris Babilonia, dell’imprenditrice e attivistaDaniela Cremona, della medica anestesista e co-founder diMamme a NudoSasha Damiani, della giornalista professionista, direttrice responsabile diRoba da DonneIlaria Maria Dondi, delle co-founder diMammadimerdaFrancesca FioreeSarah Malnerich, della creative director e attivistaElla Marciello, dell’attrice, attivista e testimonial diDifferenza DonnaValentina Melis, diGaia Rota, digital strategist, creator e attivista, diFrancesca Salviato, avvocata esperta in diritto della famiglia e delle persone, autrice del podcastParto Male, della medica psichiatraSerena Saraceni, dell’avvocata specializzata in diritto antidiscriminatorio e del lavoroAngelica Savoinie della content curatorGaia Spizzichino, della paginaNormalizenormalhomes. Il gruppo, determinato ad accorciare i lunghissimi tempi di realizzazione,porterà la proposta di legge in Cassazione, «ma nel frattempo abbiamo deciso di avviare e collaborare attivamente aun progetto di indagine statistica, la cui coordinatrice scientifica sarà ladottoressaAlessandra Minello, ricercatrice in demografia al Dipartimento di Scienze Statistiche all’Università di Padova». Fornirsi di un’indagine statistica, spiega Bubba, «si rivelerà centrale per far conoscere il problema, tracciarlo e comprenderne le reali dimensioni e le varie declinazioni». Perché i numeri sono incontrovertibili e, intorno alla violenza ostetrica e ginecologica, «ad oggi c’è una sorta di vuoto di dati incredibile, sebbene si tratti di un problema pericolosamente diffuso, molto più di quanto pensassimo». Donne e ragazzeparlanodi abbandono, di rimproveri e atteggiamenti giudicanti, di ore trascorse completamente in solitudine la prima notte da neomamme, di stanchezza e di senso di inadeguatezza. «Le testimonianze riguardanosia laviolenza ostetrica, che ha a che fare conla gravidanza, il parto e il postpartum,sia la violenza ginecologica,e sono molte anche le storie diaborto», racconta Sasha Damiani, una delle firmatarie del manifesto. Anche lei, durante il Covid, è stata vittima di un sistema in cui i maltrattamenti verbali, le umiliazioni, la mancanza di empatia e sostegno sono la norma, più che l’eccezione. «Quando mi sono ripresa, ho pensato che se nemmeno io che sono una professionista del settore, ho esperienza, carattere e una cultura medico specialistica, ero riuscita a far valere i miei diritti, allora poteva accadere a chiunque». Damiani si è è immedesimata in tutte quelle donne «giovanissime, straniere, con disabilità, che non comprendono il linguaggio medico (e ne hanno tutto il diritto)». La sua esperienza era solo una goccia in mezzo al mare. «Faceva parte di un problema sistemico che si verifica da nord a sud, in tutta Italia, nell’ospedale piccolo come in quello grande, seppur inframmezzato da realtà meravigliose e splendide». Alla pagina non sono arrivate solo le testimonianze di chi ha provato sulla propria pelle questa «forma di violenza di genere sottoposta a continua invalidazione», spiega Bubba, ma anchequalche parola di reticenza, più che di accoglienza, da parte di professionistə del settore indignatə per un’iniziativa che screditerebbe l’intera categoria: «Dicono che spesso le donne hanno esigenze che non stanno né in cielo né in terra e che i racconti che fanno non sono di violenza ostetrica, ma solo di chi non ha capito cosa sia successo e perché», spiega Damiani. Ed è proprio questo il problema: «C’è una tendenza a tirarsi fuori, a puntare il dito contro le donne che non capiscono. Ma evidentemente è mancato il tempo di cura necessario a dare loro spiegazioni adeguate». Molte delle ostetriche che contattano la pagina vorrebbero cambiare le cose «perché assistono a scene che non piacciono neanche a loro, ma hanno molta paura di farlo perché temonofenomeni di mobbing, o di essere esposte aprovvedimenti disciplinari, addiritturalicenziamenti». Da una parte ci sono le giovanissime, studentesse di ostetricia che vorrebbero cambiare il sistema, e dall’altra le professioniste che hanno vissuto la sala parto negli anni ‘90, quella senzaroooming-in, in cui veniva permesso alle donne di riposarsi: queste ostetriche sono molto a disagio nel lavorare come si lavora adesso». Nel mezzo ci sono «le figlie di un sistema che è andato sempre di più a privilegiare un tipo di parto un po’ a catena di montaggio, sempre più improntato sul naturale», continua Damiani, «ma il nostro obiettivo non è dire loro che sono persone violente per natura. Vogliamo semplicemente riportare l’attenzione sulla donna». Per questo è necessario parlare, spiega Bubba, e far emergere ciò che c’è di sbagliato nel sistema: «Che tutto questo si chiami violenza, l’abbiamo dovuto imparare da sole, ed è inaccettabile. Dobbiamo saperle dare un nome, riconoscerla e e intercettarla. E dobbiamo saperci difendere e fare in modo che episodi di questo tipo non vengano mai più perpetuati negli spazi che dovrebbero essere a sostegno della maternità».