Diritti

Il manifesto per dire no alla violenza ostetrica e ginecologica

#ANCHEAME è un’iniziativa promossa da 14 professioniste, influencer e attiviste che presenteranno una proposta di legge per regolamentare gli ambienti dedicati a maternità, genitorialità e salute intima
Credit: Polina Tankilevitch
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
3 marzo 2023 Aggiornato alle 19:00

Un manifesto. Un movimento. Una proposta di legge. #ANCHEAME è tutto questo e anche di più. È un gruppo di 14 donne che si sono unite per colmare un vuoto legislativo intorno a un tema che esiste da sempre, ma solo ora riesce, a fatica, a emergere: la violenza ostetrica e ginecologica.

Tre giorni fa è nata la pagina Instagram, «un posto in cui veicolare le esperienze e dare strumenti informativi, per far comprendere in primis che cosa sia questo tipo di violenza», spiega alla Svolta Francesca Bubba, divulgatrice e attivista per i diritti della maternità.

Dopo i fatti del Pertini, in cui un neonato è morto tra le braccia della madre, stremata dal parto, mentre lo stava allattando, Bubba ha sentito l’urgenza di occuparsi di qualcosa che, ufficialmente, ancora non esiste: «Sappiamo che è una forma di violenza sommersa che è caratterizzata da sfaccettature diverse e quasi invisibili, che hanno reso per anni difficilissima la sua intercettazione. Da quando è uscito il manifesto, abbiamo ricevuto migliaia di testimonianze di dolore sminuito, normalizzato o anche ridicolizzato da parte del personale sanitario e da chi opera negli spazi definiti a sostenere la maternità».

Una settimana dopo la tragedia del Pertini, «avevamo già la bozza della proposta di legge in mano: per noi è stata un’impellenza, più che una necessità», spiega Bubba, che l’ha stilata insieme ad altre 13 professioniste, influencer e attiviste.

Si tratta della creator Iris Babilonia, dell’imprenditrice e attivista Daniela Cremona, della medica anestesista e co-founder di Mamme a Nudo Sasha Damiani, della giornalista professionista, direttrice responsabile di Roba da Donne Ilaria Maria Dondi, delle co-founder di Mammadimerda Francesca Fiore e Sarah Malnerich, della creative director e attivista Ella Marciello, dell’attrice, attivista e testimonial di Differenza Donna Valentina Melis, di Gaia Rota, digital strategist, creator e attivista, di Francesca Salviato, avvocata esperta in diritto della famiglia e delle persone, autrice del podcast Parto Male, della medica psichiatra Serena Saraceni, dell’avvocata specializzata in diritto antidiscriminatorio e del lavoro Angelica Savoini e della content curator Gaia Spizzichino, della pagina Normalizenormalhomes.

Il gruppo, determinato ad accorciare i lunghissimi tempi di realizzazione, porterà la proposta di legge in Cassazione, «ma nel frattempo abbiamo deciso di avviare e collaborare attivamente a un progetto di indagine statistica, la cui coordinatrice scientifica sarà la dottoressa Alessandra Minello, ricercatrice in demografia al Dipartimento di Scienze Statistiche all’Università di Padova».

Fornirsi di un’indagine statistica, spiega Bubba, «si rivelerà centrale per far conoscere il problema, tracciarlo e comprenderne le reali dimensioni e le varie declinazioni». Perché i numeri sono incontrovertibili e, intorno alla violenza ostetrica e ginecologica, «ad oggi c’è una sorta di vuoto di dati incredibile, sebbene si tratti di un problema pericolosamente diffuso, molto più di quanto pensassimo».

Donne e ragazze parlano di abbandono, di rimproveri e atteggiamenti giudicanti, di ore trascorse completamente in solitudine la prima notte da neomamme, di stanchezza e di senso di inadeguatezza. «Le testimonianze riguardano sia la violenza ostetrica, che ha a che fare con la gravidanza, il parto e il postpartum, sia la violenza ginecologica, e sono molte anche le storie di aborto», racconta Sasha Damiani, una delle firmatarie del manifesto. Anche lei, durante il Covid, è stata vittima di un sistema in cui i maltrattamenti verbali, le umiliazioni, la mancanza di empatia e sostegno sono la norma, più che l’eccezione.

«Quando mi sono ripresa, ho pensato che se nemmeno io che sono una professionista del settore, ho esperienza, carattere e una cultura medico specialistica, ero riuscita a far valere i miei diritti, allora poteva accadere a chiunque».

Damiani si è è immedesimata in tutte quelle donne «giovanissime, straniere, con disabilità, che non comprendono il linguaggio medico (e ne hanno tutto il diritto)». La sua esperienza era solo una goccia in mezzo al mare. «Faceva parte di un problema sistemico che si verifica da nord a sud, in tutta Italia, nell’ospedale piccolo come in quello grande, seppur inframmezzato da realtà meravigliose e splendide».

Alla pagina non sono arrivate solo le testimonianze di chi ha provato sulla propria pelle questa «forma di violenza di genere sottoposta a continua invalidazione», spiega Bubba, ma anche qualche parola di reticenza, più che di accoglienza, da parte di professionistə del settore indignatə per un’iniziativa che screditerebbe l’intera categoria: «Dicono che spesso le donne hanno esigenze che non stanno né in cielo né in terra e che i racconti che fanno non sono di violenza ostetrica, ma solo di chi non ha capito cosa sia successo e perché», spiega Damiani.

Ed è proprio questo il problema: «C’è una tendenza a tirarsi fuori, a puntare il dito contro le donne che non capiscono. Ma evidentemente è mancato il tempo di cura necessario a dare loro spiegazioni adeguate».

Molte delle ostetriche che contattano la pagina vorrebbero cambiare le cose «perché assistono a scene che non piacciono neanche a loro, ma hanno molta paura di farlo perché temono fenomeni di mobbing, o di essere esposte a provvedimenti disciplinari, addirittura licenziamenti».

Da una parte ci sono le giovanissime, studentesse di ostetricia che vorrebbero cambiare il sistema, e dall’altra le professioniste che hanno vissuto la sala parto negli anni ‘90, quella senza roooming-in, in cui veniva permesso alle donne di riposarsi: queste ostetriche sono molto a disagio nel lavorare come si lavora adesso». Nel mezzo ci sono «le figlie di un sistema che è andato sempre di più a privilegiare un tipo di parto un po’ a catena di montaggio, sempre più improntato sul naturale», continua Damiani, «ma il nostro obiettivo non è dire loro che sono persone violente per natura. Vogliamo semplicemente riportare l’attenzione sulla donna».

Per questo è necessario parlare, spiega Bubba, e far emergere ciò che c’è di sbagliato nel sistema: «Che tutto questo si chiami violenza, l’abbiamo dovuto imparare da sole, ed è inaccettabile. Dobbiamo saperle dare un nome, riconoscerla e e intercettarla. E dobbiamo saperci difendere e fare in modo che episodi di questo tipo non vengano mai più perpetuati negli spazi che dovrebbero essere a sostegno della maternità».

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