Storie

Se studi (tanto tanto) poi, ti vengono i superpoteri

Lei sa parlare con i bambini, ma sa ammaliare anche i grandi. Francesca Cavallo, amazzone, sperimentatrice, autrice di libri per l’infanzia sa come rivolgersi ai piccoli. E spiegare come si avverano i sogni
Credit: Ilaria Magliocchetti Lombi
Cristina Sivieri Tagliabue
Cristina Sivieri Tagliabue direttrice responsabile
Tempo di lettura 10 min lettura
1 luglio 2023 Aggiornato alle 07:00

Incontro Francesca Cavallo al bar Orso di Torino. Veniamo dallo stesso Pianeta ma l’impressione, quando la incontri, è di aver di fronte un’extraterrestre. E non solo perché ha da poco aperto il summit Women in Tech di Varsavia con uno dei suoi speech super inspiring, ma perché seppur under 40 ha vissuto la vita dell’imprenditrice, della regista di teatro, dell’insegnante, della scrittrice, della viaggiatrice e chi la conosce meglio di me ne sa ancor di più.

Ecco, poi, dal vivo, quest’impressione non passa neppure dopo che hai ordinato colazione (lei super healthy, e io il contrario, peccaminosa) e provi a sfogliare il libro che l’autrice ribelle mi ha portato - Fuoriserie. Tre storie di campionesse paraolimpiche (Momo Edizioni, 20 euro) - anche se lo conosco già parecchio. Perché l’ho già letto, in digitale.

Da quando faccio interviste - da tanti anni quindi - cerco sempre di creare un contatto personale con le persone che incontro. E ogni volta che ho la fortuna di incrociare un’intelligenza che brilla mi domando: cosa posso imparare da questo essere così speciale? Da Francesca, forse, di primo acchito, mi viene questo: studiare, tanto, sempre.

Francesca Cavallo la conosciamo tutti e tutte, e forse è un po’ questo il problema. Francesca The Rebel su Instagram, la segui, la leggi, e pensi di conoscerla già. E invece no, non è affatto così, perché Francesca dal vivo è una Ceo più che un’artista. Francesca persegue obiettivi in modo molto determinato, e ho come l’impressione che quando fa una cosa non abbia proprio voglia di tentare. Francesca, ha voglia di realizzare e di riuscire, ed è molto sicura di sé nel farlo.

«Tra poco ho un’intervista con RTL». E tu, direttrice di una testata online che nulla ha a che vedere con il potente network radiofonico, già ti senti un po’ nulla. La fretta ti spiazza. E allora cerchiamo di far fruttare questa mezz’ora contata con l’autrice italiana di libri di bambini più nota al mondo. Con colei che ha reinventato la narrativa per ragazze. Con la scrittrice che è riuscita a ribaltare i ruoli di Cenerentola, e che continua a farlo, imperterrita, scrivendo, scrivendo e ancora scrivendo.

Come sei arrivata alla scrittura per bambini?

È stato abbastanza anomalo come per tutte le cose che faccio. Con una grande serendipity, senza un grosso progetto. E io ci sono arrivata, perché tra le tournée dei miei spettacoli mi era capitato come lavoro, così diciamo per arrotondare, di fare dei corsi di recitazione per bambini i cui genitori volevano far diventare attori professionisti. Sai, quando si lavora nelle scuole c’è sempre il problema di “cosa combina la classe accanto”: loro mettevano in scena Romeo e Giulietta, ma io non volevo farlo perché molti di quei bambini erano troppo piccoli e non avevano ancora sperimentato i primi innamoramenti. Io non volevo che imitassero una versione “televisiva” dell’amore: così scelsi di costruire lo spettacolo di fine anno insieme a loro, come un montaggio di scene della loro vita quotidiana che costruimmo insieme. Avevamo scritto delle improvvisazioni che parlavano dei bimbi che seguivano appunto questo corso, della loro vita e delle difficoltà che loro stessi incontravano tutti i giorni. Insomma è una cosa particolare, ma non abbiamo letto nessun testo, lo spettacolo è stato creato insieme, da zero. Drammaturgia condivisa, campi scena completamente autogestiti. È stato meraviglioso vedere che dando fiducia a dei ragazzi così piccoli, erano perfettamente in grado di appropriarsi del palco. Non stavano eseguendo nulla. Stavano creando.

Dici, la maieutica…

Lì mi sono resa conto di aver trovato un modo non coloniale di lavorare con i bambini: questa scelta, infatti, dava centralità alle loro esperienze, invece che schiacciarli soltanto per dare soddisfazione agli adulti. È stato meraviglioso. E questo tipo di riflessione è cresciuta tantissimo all’interno del mio lavoro: comunicare con l’infanzia in modo del tutto paritario: nei miei racconti do loro pari dignità, come succede per gli adulti. Perché è vero che si tende a parlare un po’ dall’alto al basso ai piccoli, e invece tutte le volte che scrivo da allora in poi io ho sempre la preoccupazione di mettere nero su bianco delle storie non per insegnare qualcosa ma per condividere con loro il mio percorso di apprendimento. E in questo trovo l’aggancio quasi magico con loro.

In occasione dell’ultimo libro che ha recensito per noi Maria Scoglio hai rispolverato questo antico bagaglio di attrezzi?

Beh sai prima delle Bambine Ribelli ho scritto altri 6 libri, e questa è una cosa che racconto sempre per incoraggiare le persone a non avere paura dei propri fallimenti, perché i fallimenti non se li ricorda nessuno. Io ho scritto tantissimo prima di scrivere le cose che ricordano tutti: una riscrittura dello Schiaccianoci che è stata illustrata da Philip Giordano, uno straordinario illustratore italiano che oggi vive in Giappone. Poi, una riscrittura di Romeo e Giulietta in rima in cui i bambini potevano cambiare gli ingredienti della pozione e quindi cambiare l’esito della tragedia. E poi ho scritto una collana di libri illustrati insieme ad altri autori. E con poi Arianna Giorgia Bonazzi - che ha scritto con me quest’ultimo libro - in passato abbiamo fatto questa esperienza meravigliosa: una collana sulla paura, si chiamava Missione Paura ed erano 4 libri in cui ognuno rappresentava una paura segreta di un supereroe.

Quindi insomma, i bambini sono il tuo chiodo fisso, il tuo tallone d’Achille, il tuo vaso di Pandora, il tuo Posto delle Fragole…

Sì, pensa che dopo Missione Paura con Elena Favilli, la mia ex compagna ed ex socia, avevamo in testa di creare un magazine per piccoli su iPad e io, siccome avevo fatto questa esperienza con i bambini a Monza che mi era piaciuta un sacco, ci credetti molto. Quindi lanciammo questo “giornale app” e scoprimmo soltanto poi che era la prima rivista per bambini su iPad al mondo: era il 2011 e quel mondo iniziava in quel momento. Era in inglese, e la scrivemmo in inglese, e per darle una vita iniziammo a fare il giro del mondo per cercare finanziamenti.

Certo l’editoria, un mercato già ai tempi in difficoltà…

Io ero una regista di teatro e lei una giornalista, e come performer le nostre presentazioni non erano affatto male. In fondo anche questo è importante, quando devi creare una startup e sei alla ricerca di finanziamenti. Facemmo decine di incontri e poi vincemmo il concorso Mind the Bridge, un premio il cui obiettivo era connettere imprenditori italiani con investitori americani attivi nel campo delle startup e portava alcuni imprenditori italiani selezionati per un mese a San Francisco. Beh, una volta arrivate lì non abbiamo perso tempo e ancor prima di partire con gli appuntamenti schedulati dal premio, organizzammo noi stesse meeting su meeting con il mondo della Silycon Valley. Desideravamo conoscere l’ambiente ed eravamo “secchione”: volevamo arrivare. Facemmo quindi tutta una ricerca degli investitori americani che stavano investendo su aziende simili a Timbuktu (il nostro giornale) e sfruttammo al massimo quel mese nella San Francisco Bay.

Sai, telefonate su telefonate, contatti dei contatti degli amici per permetterci di presentare il progetto, e poi, sorpresa! La prima che decise di investire fu Christine Tsai, che tuttora governa uno dei fondi più importanti al mondo in termini di venture capital. All’epoca era proprio sulla cresta dell’onda e noi diventammo le prime startupper italiane su sui decise di investire 50.000$, valutando così il progetto un milione nel suo complesso. Fu bellissimo. Una volta saputo del suo investimento arrivarono tanti altri imprenditori interessati a partecipare: raccogliemmo velocemente 600.000 dollari. Ma poi la triste vicenda dei puffi e il costo del gioco dei puffi (si scoprì che alcuni bambini avevano speso migliaia di dollari nel gioco, allora Apple rese complicata la monetizzazione delle app per i più piccoli, così da rendere molti meccanismi utilizzati per la monetizzazione e per rendere un’applicazione virale non furono più disponibili, ndr) bloccò l’accesso all’iPad ai bambini per progetti a pagamento, e questo ovviamente fece tramontare il progetto. Tante startup che realizzavano applicazioni per bambini, tra cui noi, si trovarono in difficoltà e dovettero cercare altre strade.

E poi arriva Storie della Buonanotte per bambine ribelli….

Dopo aver fatto l’editore per tutto il mondo di lingua inglese, con Timbuktu, ci è capitato di essere le autrici di un libro che stava vendendo letteralmente decine di migliaia di copie al mese e che ci permise di costruire una casa editrice nostra. Il successo fu inaspettato: mentre giravamo il mondo come le autrici di questa stessa opera, scoprimmo che era diventata virale a livello mondiale, poi stavamo costruendo una casa editrice che fosse in grado di stampare e spedire decine di migliaia di copie del libro al mese. Fu come l’arrivo di un treno mentre noi stavamo ancora costruendo i binari, ovvero l’infrastruttura che potesse sostenere quel successo editoriale che era in corso.

I media, decine di interviste al giorno, viaggi, far arrivare i libri nelle case delle persone, nelle librerie. Mi ricordo che che iniziammo a spedire il libro a novembre del 2016 e il giorno della vigilia di Natale ero a New York, in una camera d’albergo. Dal telefono fisso parlavo con librerie che aspettavano un pallet di libri che era andato perduto, e avevo deciso quindi di dirottare un TIR che stava portando i libri da Amazon in un’altro magazzino a Chicago per fare in modo che riuscissero ad arrivare là dove non era arrivato il pallet. Era la vigilia di Natale. Un Natale incredibile davvero.

Questa storia, poi, è poi finita in un altro libro, appunto…

Ci vuole del tempo per elaborare quello che ti accade e a me sono capitate tantissime cose. Ho un fuoco nel cassetto è stato un modo per riflettere sulle esperienze che non ho avuto il tempo di processare. Certe volte mentre scrivevo mi dicevo, “ma questa cosa c’è, esiste? Tutto questo è successo davvero in una settimana?”. Sai, quando noi non ci diamo il tempo di processare le cose sono le cose che processano noi e quindi un pezzo della mia rivoluzione, anche del tipo della visione del mondo che io propongo all’interno delle mie storie per bambini, richiede che io viva la mia vita in un mondo diverso. E adesso sto facendo questo. Voglio vivere la mia vita incarnando i valori che metto nei libri.

Tipo?

Vorrei uscire dal paradigma dell’accumulazione, perché se io non non vivo la mia vita così come faccio a raccontare ai bambini determinate storie? Non mi sentirei sincera. Però non è una cosa facile perché io comunque sono una persona estremamente competitiva, per cui non è facile fermarmi. Allora magari rinuncio a fare un’altra azienda con quegli investitori e a sentirmi figa perché continuo ad avere un round più grande di quella, cioè non è che ragionano così solo i maschi, tutte noi siamo condizionate dall’arrivare. Per avere successo nella nostra testa è necessario incrociare alcuni indicatori chiari di come si misura questo successo. E riscrivere dentro di noi l’idea di successo, cambiare gli astri con i quali orientiamo le nostre vite è difficile, è un lavoro molto profondo, radicale, coraggioso, controcorrente, divisivo.

Ci sono volte in cui gli editori, o i partner con cui si lavora, magari non fanno le cose come vorresti. E molti pensano che, siccome c’è l’idea che le donne siano più remissive “di natura” ci stia bene tutto. Addirittura che dobbiamo solo ringraziare se qualcuno vuole pubblicare un nostro lavoro e non interrogarci sul valore che portiamo ai partner di un accordo. Io non credo che sia giusto non essere consapevoli del proprio valore, culturale, ma anche economico. Imparare a difendere le proprie posizioni in modo maturo e senza farsi prendere da rabbia o amarezza o perfino desiderio di vendetta quando un accordo non viene rispettato o il nostro valore non viene riconosciuto… è un lavoro importante, profondo.

Noi donne subiamo spesso il trauma di non essere valorizzate come dovremmo, subiamo ancora più degli uomini le logiche di sfruttamento padronale così diffuse nel nostro Paese. Se vogliamo interrompere i cicli che tengono insieme il patriarcato dobbiamo rispondere a queste dinamiche senza paura, anche sbagliando, incontrando noi stesse e gli altri su un livello più profondo. Questo è il lavoro più difficile, quello che a qualcuno farà dire che ce la tiriamo, ad altri che siamo stronze. Rompere questi cicli non è mai indolore. Ma credo valga la pena di provare. Mi infastidiscono i discorsi sulle donne che sono meno ambiziose, perché io su di me lo so benissimo che c’è una parte di me che si vuole mangiare tutto.

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