Ambiente

Chi fa affari con le cause climatiche?

Sono sempre di più le richieste di risarcimento per gli incidenti ambientali e il global warming. Ma dietro le class action spesso ci sono finanziatori “profit”. Come riporta l’inchiesta del Financial Times
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7 giugno 2023 Aggiornato alle 15:00

A gennaio, il Guardian spiegava perché il 2023 sarebbe stato l’anno decisivo per le battaglie legali conto i grandi inquinatori del mondo. Le “climate litigation”, i contenziosi climatici contro Governi, multinazionali e società private si stanno infatti moltiplicando in tutto il Pianeta, non ultimo in Italia.

Greenpeace, ReCommon e 12 cittadini residenti in zone colpite dalla crisi ecologica lo scorso maggio hanno citato Eni, il ministero dell’Economia e la Cassa depositi e prestiti (in quanto azionisti) perché le attività globali della multinazionale “emettono in un anno più gas climalteranti dell’intera Italia”. L’iniziativa legale, chiamata La giusta causa, è stata depositata al Tribunale di Roma, che dovrà ora accertare anche la violazione dei diritti umani e alla salute dei cittadini.

La crescita dei movimenti di giustizia climatica, se da una parte mette come mai prima una pressione su Stati e aziende per mitigare le emissioni e assumersi le responsabilità delle inazioni politiche (o delle leggi che danneggiano l’ambiente), dall’altra sta alimentando un business molto, molto redditizio.

Lo sottolinea la nuova inchiesta del Financial times che ha cercato di fare luce sul crescente interesse dei cosiddetti “finanziatori di controversie” (o litigation financers) che puntano a guadagnare sulle richieste di risarcimento legate al clima o a incidenti ambientali di grandi portata.

Un esempio? La società Harbour Litigation Funding ha speso più di 17 milioni di sterline per finanziare una causa intentata da 15.000 agricoltori indonesiani contro la Pttep Australasia: nel 2009 uno dei suoi pozzi petroliferi ha riversato per 2 mesi greggio nel mare di Timor, provocando la morte della fauna marina e delle alghe che davano da vivere a migliaia di coltivatori. Nel 2022 la vittoria: su 102 milioni di sterline di risarcimento, 43 milioni sono andati al fondo.

Secondo il quotidiano, il panorama legale americano è molto adatto a questo tipo di casi perché i risarcimenti possono raggiungere cifre miliardarie e la parte perdente non copre le spese legali del vincitore” (in base al sistema no win - no fee). Trovati i capitali, i finanziatori gestiscono quindi un portafoglio di “battaglie” e hanno la capacità per coprire le spese legali e le perizie che ai comuni cittadini o alle associazioni no profit costerebbero una cifra enorme. In cambio, la loro percentuale di guadagno in caso di vincita della causa si aggira in media sul 25%.

La natura etica di questo tipo di operazioni finanziarie, però, non è garantita come invece accade nel caso dei grandi investitori filantropici sostenuti da gruppi ambientalisti, donazioni, crowdfunding. Il rischio è che le cause vengano scelte più per la loro probabilità di vittoria o in base all’entità del risarcimento e meno per il loro impatto sul Pianeta. I litigation financers sono finiti non a caso nel mirino della Ue, che sta valutando di regolamentare almeno la quota di interessi maturati sul risarcimento, e sono invisi ovviamente alle organizzazioni ambientaliste no profit che preferiscono agire contro le multinazionali in modo diversificato.

Per esempio, cercando di boicottare i progetti altamente inquinanti acquistando quote delle società che vogliono costruire centrali fossili, come accaduto in Polonia. Qui la Ong ClientEarth si è battuta per impedire la costruzione di una centrale elettrica a carbone, la Ostroleka Power Station, comprando azioni da 20 euro della società che doveva realizzare l’impianto e facendo pressioni sul Governo affinché non finanziasse il progetto. Il risultato? Lo stop dei finanziamenti.

Ma c’è anche chi, come un gruppo di donne svizzere anziane chiamate Klimatseniorinnen, grazie a una denuncia sostenuta da un team di avvocati ambientalisti di Greenpeace lo scorso marzo è riuscito ad arrivare alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. La Corte entro il 2023 emanerà un verdetto per valutare in che misura la Svizzera stia violando i diritti umani per non aver intrapreso azioni significative a protezione del clima. Magari non otterranno grandi risarcimenti, ma una vittoria morale e legislativa si spera di sì.

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