Economia

I rampolli finiscono sempre nelle aziende di famiglia?

Spesso i giovani imprenditori sono i “figli del capo”, del fondatore. Il 90% delle imprese nel mondo, infatti, è a conduzione familiare. Tuttavia, esistono le eccezioni
Credit: Ron Lach
Tempo di lettura 5 min lettura
27 aprile 2023 Aggiornato alle 07:00

Il 90% delle aziende mondiali sono aziende a conduzione familiare, secondo l’Economist. Questo range fa ovviamente riferimento a una categoria di imprese estremamente ampia che comprende tanto le piccole realtà locali quanto le grandi multinazionali. Quando si parla di quest’ultime, i riflettori si accendono su un funzionamento complesso, che si interseca su diversi livelli: potere, denaro e competenze manageriali.

Se pensiamo ad alcune delle più grandi aziende al mondo, molte sono proprio a conduzione familiare: LVMH, che ha recentemente acquisito Bulgari e Fendi, guidata da Bernard Arnault e dai suoi discendenti; ma anche l’impero mediatico di Rupert Mardoch, News Corp. Avvicinandoci ai confini nazionali troviamo Italmobiliare, che appartiene alla famiglia Pesenti da 6 generazioni, ma anche Geox, Piaggio e Prada che vedono oggi al timone gli eredi dei fondatori.

Essere i rampolli del settore industriale, tuttavia, è una posizione tanto privilegiata quanto carica di responsabilità, dove non sempre detenere il potere è la scelta più corretta. Il rischio è quello di mantenere una linea manageriale piuttosto rigida, incapace di seguire le tendenze e le evoluzioni di mercato, e di creare terreno di scontro con gli azionisti esterni (per le società più strutturate) e con i loro interessi.

Warren Buffet, investitore e magnate americano, definisce i giovani imprenditori come gli appartenenti al “lucky sperm club”: un gruppo nel quale i membri non hanno dovuto faticare troppo per raggiungere le posizioni apicali in azienda (nonostante magari siano in possesso di titoli e requisiti) semplicemente perché nati nella famiglia “giusta”.

I cosiddetti “figli di” spesso nascono con un ruolo e un destino cucito addosso, preparati e proiettati fin dalla culla ad assumere un giorno le redini dell’azienda: i migliori programmi di studio, le migliori università, conoscenza e competenze ad hoc che acquisiscono sin dalla giovinezza.

Pensiamo al famoso marchio di abbigliamento Moncler guidato dall’imprenditore Remo Ruffini, che vede una consolidata presenza di figli nei vari rami aziendali. Il primogenito, Pietro Ruffini, è a capo di una delle holding della famiglia ed è candidato al Consiglio di Amministrazione della Italmobiliare dopo aver già acquisito esperienza all’interno del Cda della stessa Moncler; mentre il minore, Romeo Ruffini, classe 1992, ha lasciato la sua occupazione in un fondo di Private Equity per entrare nei vertici della Stone Island e iniziare a farsi strada all’interno del gruppo Moncler.

Non si tratta, tuttavia, di una regola fissa: diverse aziende (tra cui Lego e le famose catene di hotel Hilton e Marriott International) hanno inserito alla guida dei manager professionisti così da assicurare la crescita dell’azienda, limitando gli eredi a un ruolo di partecipazione.

All’interno delle grandi imprese troviamo, dunque, professionisti e amministratori delegati spesso scelti all’interno della famiglia imprenditrice oppure esterni, in relazione alle esigenze e alla struttura aziendale. Fondamentale è capire quale sia la strada più adatta ai bisogni dell’azienda per garantirne la crescita.

La via verso il successo è spesso accompagnata dalla scelta di vendere, anche solo parzialmente, la propria azienda: infatti, la vendita diventa sempre più un investimento per gli imprenditori che credono nel proprio progetto e nel quale desiderano scommettere.

Si tratta di un mercato dall’altissimo valore economico che secondo la ricerca della società svizzera Pictet Wealth Management, in collaborazione con il Politecnico di Milano, tra il 2013 e il 2022 ha visto la chiusura di 2.360 deal, con un flusso pari a circa 300 miliardi di euro, di cui 141 miliardi realizzati solo in 1.055 transazioni. La portata del fenomeno risulta evidente se confrontata con la ricchezza finanziaria totale realizzata in Italia nel 2022 che è pari a 5.237 miliardi di euro.

Questi numeri non devono essere analizzati come una realtà sistematica dove “il pesce grande mangia il pesce piccolo” e, conseguentemente, come un inarrestabile ampliamento delle aziende di maggiori dimensioni. Essi sono sintomo di una nuova mentalità imprenditoriale: tra i 1.055 affari conclusi il taglio medio è stato di circa 134,3 milioni di euro con una stragrande maggioranza di operazioni sotto i 50 milioni di euro.

Ma cosa significa? Che la grande cifra realizzata è influenzata da operazioni estremamente redditizie che alzano la media. Per esempio, nel 2021 il gruppo Ermenegildo Zegna, azienda dal valore di oltre 3 miliardi di euro, ha venduto oltre il 50% delle proprie quote alla Spac Investindustrial Acquisition Corp, così come Italo che nel 2018 ha visto un investimento del 100% della Global Infrastrucutre Partners per oltre 2 miliardi di euro, e la società farmaceutica Recordati che, nello stesso anno, ha superato i 6 miliardi con il 52% di quote.

Al tempo stesso moltissime imprese, anche più piccole, iniziano invece a comprendere i vantaggi di investire nella propria azienda, aumentando le proprie dimensioni e diventando più competitive sul mercato.

Un nuovo modo, dunque, di concepire il mondo aziendale dove la gestione è legata alle competenze (oltre la famiglia) e gli imprenditori scommettono coraggiosamente su sé stessi.

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