Economia

Strano ma vero. Tanto lavoro, tanti figli

Il paper The Economics of Fertility: A New Era spiega che nei Paesi avanzati un tasso di partecipazione femminile più elevato sul mercato del lavoro è correlato positivamente al numero di figli
Credit: Ron Lach/Pexels
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 7 min lettura
30 agosto 2022 Aggiornato alle 06:30

In Ungheria, l’Ufficio dei revisori dei conti statali del Governo di Orban ha recentemente pubblicato un rapporto che mette in guardia rispetto all’istruzione femminile.

Nel report si afferma che un aumento delle donne laureate può condurre a una contrazione del tasso di natalità.

Il tema, com’è noto, è molto caro a Orban che, nel 2019, ha previsto un’esenzione a vita dal pagamento dell’imposta sul reddito per le donne che hanno avuto almeno quattro figli.

Ah, possono presentare domanda anche i padri, ma soltanto se la madre è morta.

Nello stesso anno, in Polonia il governo ha istituito una pensione speciale per le donne con quattro o più figli che, pur avendo raggiunto l’età pensionabile, non avevano accantonato a sufficienza per una pensione minima.

Putin, come sempre, ha voluto strafare: ha recentemente previsto il titolo di “Madre Eroina” per le donne che avranno più di dieci figli.

Due curiosità. La prima: il premio è anche monetario, perché alla mamma incubatrice verrà riconosciuto l’equivalente di 16.000 Euro. La seconda: non si diventerà madri eroine alla nascita del decimo figlio. Sarà necessario aspettare il compimento di un anno dell’ultimo arrivato (e si riceveranno titolo e assegno solo se tutti gli altri nove figli saranno ancora vivi in quel momento).

Potrebbe essere una mia impressione, ma mi pare che negli ultimi anni e ancor più negli ultimi mesi, nel dibattito collettivo sul corpo delle donne (sì, perché del corpo delle donne si sentono tutti titolati per poter parlare) i toni si stiano esacerbando. E la direzione sia un’ostinata retromarcia.

Le donne che lavorano? Sono loro il problema!

Per esempio, in un Paese come il nostro, in cui mancano i servizi di base per le famiglie, in cui il calendario scolastico prevede ancora oltre 3 mesi di vacanze (che le famiglie si trovano a dover gestire in qualche modo, con moltissima fatica), in cui le donne, soprattutto se madri, vengono discriminate, indovinate un po’ qual è il problema? Ma sì, proprio loro: le madri che lavorano.

Perché, nella prospettiva di accrescere la popolazione nazionale, le donne più istruite, quelle che lavorano, decidono di avere meno figli, si dice.

Non è la disuguaglianza di genere uno dei principali fattori in grado di spiegare la fertilità più bassa che si trova nei Paesi del Mediterraneo. No. Il problema sono le donne istruite e che lavorano.

E invece, per fortuna, i dati e la letteratura ci vengono a supporto, perché ci dimostrano che i Paesi che sono sono riusciti a traghettarsi dal modello della famiglia tradizionale basata sul matrimonio e sul modello del capofamiglia maschio a modelli più egualitari registrano livelli di fertilità più elevati (Esping-Andersen, 2009; McDonald, 2000).

Inoltre, sebbene i dati, per qualche tempo, sembravano confermare una relazione inversa tra lavoro e istruzione delle donne da un lato e numero di figli dall’altro, nuove evidenze empiriche (tra cui, un recente articolo intitolato The Economics of Fertility: A New Era) dimostra che, nei Paesi avanzati, un tasso di partecipazione femminile più elevato sul mercato del lavoro è correlato positivamente al numero di figli. In altri termini, le donne che lavorano fanno più figli.

Smontiamo i presupposti

Per prima cosa, parliamo di quest’esigenza antica dell’incremento della popolazione come fattore competitivo e di forza.

È una retorica nazionalista che si è ulteriormente rafforzata grazie alle teorie complottiste della sostituzione, che mostrano tutta la fragilità del maschio bianco e il suo timore di essere rimpiazzato dai migranti (soprattutto se islamici).

E allora, per non essere sostituiti, occorre che i bianchi (anzi, le bianche, a dirla tutta) abbiano moltissimi figli.

Ma il mondo ne ha bisogno? Oltre che per rassicurare l’ego maschile, è davvero necessario che la popolazione aumenti?

Diciamoci la verità: a inizio ‘800, la popolazione mondiale era composta da circa 1 miliardo di abitanti. Ora, siamo circa a 8 miliardi, dopo millenni di sostanziale stabilità.

Vale la pena di rammentare che questo incremento vertiginoso di popolazione ha avuto enormi impatti ambientali, perché, banalmente, più persone sulla terra equivalgono a più risorse consumate, più emissioni e più prodotti di scarto.

Quindi, no: il Pianeta nel suo complesso non ne ha bisogno.

La questione femminile e l’aumento di ricchezza

Non possiamo, poi, ignorare che queste decisioni sulla riproduzione che vengono prese a livello istituzionale (tanto più, se da maschi bianchi etero anziani e con tutto il pacchetto dei privilegi) impattano drammaticamente sulla vita delle donne.

Perché è stato vero per un certo lasso temporale che le donne meno istruite e disoccupate facevano meno figli e la direzione causale è stata semplicemente spiegata come segue: se le donne non studiano e non lavorano, si riproducono.

Ma la relazione di casualità potrebbe essere anche inversa, ovvero (come dimostrano molti studi empirici) che le donne con titoli di studio avanzati hanno in media una fertilità inferiore perché quelle che hanno uno o più figli prematuramente hanno maggiori probabilità di lasciare lunghi percorsi educativi (o di non entrarvi affatto) e non raggiungono mai un alto livello di istruzione (Cohen, Kravdal e Keilman, 2011). Alla medesima conclusione si può arrivare quando si parla di presenza femminile sul mercato del lavoro.

Se invece la osserviamo con le lenti di una prospettiva di crescita, il fatto che le donne non lavorino rischia di comportare conseguenze anche molto gravi sulla produzione di ricchezza nazionale.

In primo luogo, le donne istruite forniscono cure migliori, aumentando così il valore del capitale umano dei loro figli e ridimensionando la necessità di avere un numero più elevato di figli.

Senza contare che, se vogliamo parlare di crescita, l’aumento dell’istruzione femminile è ormai acclaratamente legato all’incremento del Pil.

Nei Paesi emergenti, per esempio, assicurarsi che tutte le ragazze finiscano l’istruzione secondaria entro il 2030 potrebbe aumentare il Pil del 10% in media nel prossimo decennio.

Ancora: l’istruzione femminile esercita un effetto moltiplicativo nella creazione di ricchezza.

Ogni dollaro speso per i diritti e l’istruzione delle ragazze genererebbe un ritorno di 2,80 dollari, equivalente a svariati miliardi di dollari in Pil extra, secondo lo studio del gruppo per i diritti Plan International e del team Global Insights della società di servizi finanziari Citi.

Anche secondo Standard & Poors, perfino un’economia forte come quella statunitense dovrebbe puntare sull’attrazione delle donne nel mercato del lavoro per poter aumentare il Prodotto interno lordo.

Più donne istruite, più donne nel mercato del lavoro, maggiore crescita e ricchezza collettiva.

E allora, se non è vero che mantenere le donne in una situazione di scarsa istruzione e dipendenza economica da mancato lavoro aiuta l’economia nazionale, perché ne stiamo ancora parlando?

Considerando che, secondo la Banca Mondiale, il rendimento di un anno di istruzione secondaria per una ragazza è correlato a un aumento del suo futuro salario fino al 25%, mi viene un dubbio: non sarà che invece, favorendo la formazione delle donne e la loro presenza sul mercato del lavoro viene messo in crisi il modello patriarcale che tiene gli uomini al riparo dalla concorrenza femminile?

Non è che davvero alcuni uomini sono spaventati all’idea di avere a che fare con donne che conseguono la laurea e guadagnano come (se non più di) loro?

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