Economia

Perché restare?

Tra lavoro che non c’è e salari che diminuiscono, possiamo davvero stupirci se le persone più giovani, soprattutto se laureate, lasciano il Paese?
Credit: Sara Rolin
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 4 min lettura
28 marzo 2023 Aggiornato alle 06:30

Ok, stiamo messi male tutti. Nel 2023, il Pil italiano dovrebbe aumentare dello 0,5%. Ma mentre al Centro-Nord ci aspettiamo un incremento dello 0,8%, al Sud la ricchezza prodotta dovrebbe non crescere, ma contrarsi dello 0,4%. E, come sempre, durante le crisi le disuguaglianze si inaspriscono.

A confermarlo ancora una volta è il 49° Rapporto Svimez, secondo il quale, se scendiamo a livello delle famiglie italiane, sono soprattutto quelle che vivono nel Mezzogiorno hanno subito le conseguenze dello shock energetico di quest’ultimo anno. Come effetto dell’incremento dell’inflazione, secondo Svimez sui 760.000 nuovi poveri, oltre mezzo milione vive appunto nel Sud del Paese.

Il lavoro stabile, questo sconosciuto

Quello italiano è un mercato del lavoro in costante sofferenza. Soprattutto per le persone più giovani e soprattutto nel Mezzogiorno.

Nel 2021, a essere in una condizione di “precarietà persistenteè il 24% dei lavoratori nelle regioni meridionali del Paese (al Nord, il 13%). E dalla precarietà si fa fatica a uscire: le persone che hanno un lavoro precario e che sono state stabilizzate al Sud è bassissima e non arriva al 16% (al Nord, il 27%).

E oltretutto, c’è una novità: avere un lavoro non significa più automaticamente riuscire a garantirsi un’esistenza dignitosa.

Povero, nel nostro Paese, è un lavoratore su quattro. Se sei donna, come al solito è peggio: è povera una lavoratrice su tre. Se sei giovane, peggio ancora: è povero un giovane lavoratore su due. Negli ultimi trent’anni, l’incidenza dei salari bassi è perfino cresciuta, anche perché, secondo Istat, le retribuzioni medie sono diminuite del 2,9% (l’unico Paese tra tutti i membri Ocse).

Sarà per questo che…

Si trova poco lavoro. E anche quando si riesce a trovarlo, si rischia comunque di rimanere in una condizione di povertà. Possiamo quindi sorprenderci nel sapere che tra il 5% e l’8% dei laureati italiani scappa all’estero?

Certo, per noi il problema rischia di essere un po’ più grave che altrove, dal momento che la quota delle persone laureate nel nostro Paese è particolarmente bassa: il 28% delle persone di età compresa tra i 25 e i 34 anni (contro una media Ocse del 40%). E che mentre al Nord si può sempre contare sulla migrazione interna (116.000 giovani solo verso Lombardia e Veneto), mentre il Sud continua a perdere energie e competenze.

Del resto, in media un expat guadagna quasi 2.000 euro al mese, a un anno dalla laurea, mentre chi rimane non arriva neppure a 1.400 euro. E a 5 anni dal conseguimento del titolo, mentre all’estero la retribuzione media sfiora i 2.400 euro, in Italia si toccano a stento i 1.600 euro. E mentre all’estero i contratti a tempo indeterminato rappresentano quasi il 52% del totale, in Italia siamo appena al 28%.

Avessimo almeno il salario minimo

In tutta l’Unione europea, i Paesi che non si sono dotati di una retribuzione minima oraria sono solo sei. Il nostro (a questo punto direi prevedibilmente) è uno di questi, insieme ad Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia.

E gli altri Paesi? In Germania il salario minimo è stato introdotto nel 2015, fino al primo ottobre era a 9,82 euro, ma è stato portato a 12 euro lordi. A percepirlo sono 6,2 milioni di lavoratori dipendenti. In Francia, Olanda, Irlanda e Belgio il salario minimo ammonta a circa 10 euro.

In Italia, ne avremmo bisogno? Secondo Inps, sì: i lavoratori che guadagnano meno di 9 euro l’ora sono quasi il 30% del totale. E negli altri Paesi non sono stati osservati effetti collaterali degni di nota. Ed è vero che noi abbiamo i contratti nazionali, ma mi limito a sollevare tre punti critici: vi sono alcune tipologie di contratto a cui non si applica nessun contratto collettivo; anche quando vi è un contratto collettivo, a volte non viene opportunamente considerato: nelle denunce mensili dell’Inps, più della metà dei datori di lavoro non utilizza il contratto collettivo registrato nell’archivio del Cnel; infine, anche laddove venga utilizzata, la contrattazione collettiva prevede un livello di salari medi comunque troppo basso (nel 2021, secondo Eurostat, il salario medio nell’Eurozona ammonta a 37.382 euro, in Italia a 27.404).

Poco lavoro, retribuzioni basse, niente salario minimo. Bisogna intervenire e bisogna farlo adesso: per il benaltrismo non c’è più tempo.

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