Diritti

Il Ponte Morandi ci ricorda Chernobyl

A sottolinearlo nel processo per il crollo, è stato l’ingegnere Paolo Rugarli, consulente tecnico delle parti civili: «Dal 2014-2015 era questione di settimane o mesi»
Credit: ANSA/ LUCA ZENNAR
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9 febbraio 2023 Aggiornato alle 08:00

Genova «come Chernobyl». A sette mesi dall’inizio del processo per la strage causata dal crollo del ponte Morandi, in aula riecheggia un’immagine.

È quella che mescola il disastro nucleare avvenuto nel 1986 con la tragedia del capoluogo ligure del 2018.

Non si è trattato di «un disastro causato dalla singola azione errata di un individuo immerso in un contesto complesso e indotto o costretto a prendere decisioni in tempi rapidi», ha detto il 6 febbraio l’ingegnere Paolo Rugarli, consulente tecnico delle parti civili, ascoltato per l’intera giornata dal collegio dibattimentale del processo.

Al contrario, ha aggiunto, è stata «una catastrofe più simile a quanto accaduto a Chernobyl, una tipologia di evento propiziato da un vasto e apparentemente assai rigoroso sistema di regole e organizzazioni che in realtà era profondamente disfunzionale». Il suo era un intervento molto atteso in un processo che si gioca tutto sul peso delle consulenze tecniche. Se la linea dell’accusa, infatti, è quella secondo cui gli imputati non avrebbero fatto nulla per evitare il crollo, gli avvocati difensori sostengono che la responsabilità del disastro sia da attribuire a un difetto di costruzione del ponte.

Il crollo era una questione di tempo

La disfunzione a cui ha fatto riferimento Rugarli si protraeva dalla fine degli anni ‘70, quando fu messo nero su bianco che la stabilità del ponte era compromessa.

In una relazione, infatti, si mise in luce che la struttura protettiva dei cavi primari del viadotto risultava infiltrata: una condizione che avrebbe potuto causare la progressiva corrosione del metallo della struttura.

«Da quel momento è partito il timer», ha detto il consulente tecnico delle parti civili: «Bisognava intervenire con tiranti suppletivi che avrebbero evitato il crollo. La chiusura del ponte senza tiranti suppletivi – invece – non avrebbe evitato il crollo, ma avrebbe salvato le vite umane».

Quello che emerge è che già nel 1977 venne smentita l’idea del progettista Morandi secondo cui «un ponte costruito in quel modo non avesse bisogno di manutenzione». Al contrario, già allora, venne acclarato che nel momento in cui le funi metalliche si fossero corrose in una certa percentuale, «il ponte sarebbe crollato in mille pezzi» semplicemente perché il calcestruzzo non le avrebbe protette per sempre come, invece, sosteneva Morandi. Anzi, il rivestimento in calcestruzzo avrebbe impedito di verificare lo stato di corrosione del metallo.

La chiusura del ponte avrebbe salvato molte vite

A far riflettere, nella relazione di Rugarli acquisita nel processo, è la circostanza per cui già nel 1977, in una relazione a firma dell’ingegnere Zanetti di Spea (la società che si occupava di manutenzioni e ispezioni) emergeva lo stato di parziale corrosione dei tiranti del ponte.

Era necessaria, dunque, una manutenzione adeguata già 10 anni dopo la costruzione del ponte completato nel 1967. Si arriverà così al 2015, quando «un’ispezione sullo strallo della pila 9, quella che poi ha ceduto – ha ricordato Rugarli –, fece emergere trefoli rotti, che si spostavano con uno scalpello».

A questo punto, le alternative non potevano che essere due: applicare cavi esterni sulla pila 9, come era già stato fatto nel 1993 per la pila 11 del ponte, oppure decidere di chiudere il ponte. I risultati del monitoraggio del 2015 «avrebbero dovuto portare a chiudere il ponte o a limitare fortemente il traffico in attesa di indagini molto più vaste e approfondite».

Secondo l’esperto, infatti, «dal 2014-2015 il crollo era questione di settimane o mesi», per questo la chiusura del viadotto «avrebbe potuto salvare le vite umane».

Le prossime tappe del processo Morandi

Ad ascoltare le parole pronunciate in aula dall’ingegner Rugarli c’era l’ex Amministratore delegato di Autostrade per l’Italia Giovanni Castellucci, nella lista dei 59 imputati per il disastro che ha provocato la morte di 43 persone.

Le accuse, a vario titolo, sono di omicidio colposo plurimo, omicidio stradale, crollo doloso, omissione d’atti d’ufficio, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso e omissione dolosa di dispositivi di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Le udienze di quello che a tutti gli effetti può essere considerato un maxi processo sono iniziate il 7 luglio dello scorso anno con la presentazione delle richieste di costituzione di parti civili ammesse a settembre. Ma il calendario delle convocazioni in aula è molto fitto e si protrarrà fino al 19 luglio 2023.

A partire da domani saranno ascoltati gli investigatori della Guardia di Finanza e avanti così fino all’estate con circa tre udienze a settimana. Correre è un dovere in un processo come questo su cui incombe lo spettro della prescrizione per i reati meno gravi.

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