Diritti

Contro l’ideologia del merito

Non ha senso parlarne, se non si affrontano le disuguaglianze. E un governo conservatore, qualunque sia, non lo farà
Credit: Ryunosuke Kikuno/unsplash
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26 ottobre 2022 Aggiornato alle 06:30

Povero Ministero dell’Istruzione. Incorporato, scorporato, un pezzo qua, un pezzo là, messo nelle mani della gente più varia e meno titolata a gestirlo (ma non è forse vero, del resto, per la maggior parte dei ministeri?) e ora, in un guizzo di inconsapevole ironia, rinominato Istruzione e Merito. Un’accoppiata agghiacciante, soprattutto alla luce della totale impermeabilità dell’attuale governo alla questione sociale, di classe, di pari opportunità che scava voragini fra le scuole del nord e quelle del sud, fra chi vive in provincia e chi vive in città, fra chi ha la casa in centro e chi invece si affaccia sugli scheletri degli edifici lasciati incompiuti da palazzinari falliti.

Chi obietta che non è vero, che questo governo non ha ancora iniziato a lavorare e che non si può ancora dire cosa farà, dimostra di non conoscere la storia politica delle destre conservatrici e di non avere fatto molta attenzione nemmeno in campagna elettorale: fra flat tax a percentuali fantasiose e improvvisate sul momento e anatemi contro il Reddito di Cittadinanza, chi ha vinto le elezioni ha detto chiaramente che dei poveri non gliene può fregare di meno.

Merito, merito, merito, ci si riempie la bocca con questa parola, e i più tronfi sono proprio quelli che devono tutto, ma proprio tutto, al felice incrocio di coincidenze che li ha messi nelle condizioni di accedere all’istruzione superiore e fare carriera. “Merito” e la sua sorella malvagia, “meritocrazia”, sono le parole preferite della gente che quando vede un senzatetto pensa al decoro cittadino e non al fatto che c’è gente in condizioni di indigenza tale da dover vivere per strada. La questione del merito è una questione di prospettiva, prima di tutto: le persone di successo raramente pensano che il loro successo sia dovuto a fattori ambientali come l’essere nati bianchi, europei, in un Paese che ha scuola e sanità pubblica, in una famiglia stabile che li ha sostenuti. Nessuno pensa di godere di un privilegio; nessuno vuole pensarlo.

Gli uomini di mezza età, soprattutto, faticano ad accettare le critiche al concetto di “meritocrazia”. La prendono come una difesa dell’inazione, della nullafacenza, dell’incompetenza. È impossibile, per loro, riconciliare l’immagine che hanno di sé con l’idea che il loro successo sia dovuto al caso, alla buona sorte che non li ha fatti nascere in un campo nomadi o in uno SPRAR di provincia, o anche soltanto femmine in una società che rifiuta di riconoscere il valore sociale dell’autodeterminazione e trasforma l’esperienza di essere donne in una corsa a ostacoli, un Giochi senza Frontiere in cui vincono sempre e solo quelli che non hanno problemi a fare riunioni all’ora di cena. Tutti campioni della meritocrazia, con il tempo e il lavoro di cura che le donne sottraggono alla loro vita.

Il fatto che “meritocrazia” non sia una parola appartenente alla nostra tradizione linguistica sembra essere un dettaglio marginale, quando forse è il cuore di tutto il problema. Il termine meritocracy è arrivato in Italia dagli Stati Uniti, il Paese occidentale con la forbice più ampia fra ricchi e poveri, la minore sicurezza sociale, le più grandi iniquità e disparità di classe sociale, accesso all’istruzione e al mondo del lavoro. Anche solo questo dovrebbe far suonare le sirene dell’allarme, e invece no: c’è ancora gente – troppa gente – convinta che gli USA siano un modello sociale sostenibile. Anche ora che il Paese sta andando in pezzi al rallentatore sotto i nostri occhi, distrutto dalle stesse disparità e divisioni che ha nutrito per secoli.

Se il gioco è truccato, la meritocrazia è una truffa dei ricchi ai danni dei poveri.

“Merito”, cosa significa questa parola in una società dove le disuguaglianze sono sotto gli occhi di tutti, o almeno di quelli che le vogliono vedere? Una società, la nostra, in cui chi non ha niente è alla mercé di chi ha tutto, in cui misoginia, omofobia, transfobia e discriminazioni non possono nemmeno essere chiamate per nome, un Paese in cui chi nasce in una famiglia di origine straniera deve aspettare in media fino ai trent’anni per avere la cittadinanza, con tutto quello che ne consegue in termini di accesso ai concorsi pubblici, possibilità di soggiornare all’estero per studio o lavoro, o anche solo mobilità all’interno dei Paesi europei. I componenti dell’attuale governo si sono più volte espressi contro qualsiasi tentativo di porre rimedio a queste disparità, a volte anche in modi a dir poco coloriti. Davvero ci aspettiamo che chi si oppone al progresso sociale possa portare avanti politiche basate sul “merito” che non siano altro che un’autogiustificazione elitaria?

Per molti, la soluzione è una sola: dare la colpa a chi non ce la fa, umiliare chi si inventa un modo per campare, colpevolizzare chi nasce in condizioni di svantaggio sociale ed economico. E a sostegno di questo atteggiamento, glorificare chi “ce la fa”, perché la parola “meritocrazia” è una parola che vorrebbe essere una soluzione, quando la sua stessa composizione indica il problema. Il potere, il dominio, la “-crazia”, il comando dei “meritevoli” che non è altro che la riproposizione delle strutture di potere esistenti. Strutture che peraltro hanno lo svantaggio non indifferente di soffocare i talenti marginalizzati da una mancanza di buone connessioni familiari e sociali: una quantità spropositata di intelligenze, potenzialità e idee buttati per assegnare posti e poltrone ai soliti quattro noti, notoriamente incapaci.

Potere, nient’altro che questo, potere: farcela, emergere, poter decidere, disporre. La dimensione collettiva, come sempre, non conta niente: conta solo l’individuo, il singolo, l’affermazione, la scalata al vertice, la conservazione di un privilegio o il raggiungimento di uno status privilegiato. Qualcuno resterà indietro. Si poteva impegnare di più, no?

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