Diritti

È ora di riformare la legge sulla cittadinanza

Sono più di un milione le persone che vivono da straniere nel loro stesso Paese a causa di una norma, la 91/92, e della presunta difesa di un’idea di italianità che non esiste più
Uno scatto del progetto antirazzista Fading
Uno scatto del progetto antirazzista Fading
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16 febbraio 2022 Aggiornato alle 08:00

Ormai non c’è quasi nessuno che non ne abbia almeno uno fra gli amici, i conoscenti, i parenti: il collega di lavoro nato a Frascati da genitori singalesi, l’amichetta della figlia e i genitori di origine cinese, il cognato nato in Bosnia e venuto in Italia piccolissimo, la compagna d’università di famiglia ivoriana che parla l’italiano con un robusto accento veneto.

Sono gli italiani senza cittadinanza, gente che frequentiamo ogni giorno ma che non ha gli stessi diritti e le stesse opportunità di chi è nato in Italia da genitori di cittadinanza italiana, e nemmeno gli stessi diritti di chi è nato all’estero da genitori italiani. Il paradosso è che ci sono argentini che possono votare alle elezioni politiche quando a malapena saprebbero trovare sulla cartina non dico l’Italia, ma quantomeno la regione d’origine dei loro nonni e genitori; e ci sono italiani nati in Italia, che non hanno mai conosciuto altro paese che questo cuissard pacchiano con tanto di sperone allungato nel Mediterraneo, che però devono costantemente passare attraverso l’ordalia di rinnovi del permesso di soggiorno, e certo, possono pure fare domanda di cittadinanza una volta maggiorenni, ma veloci veloci: al compimento del diciannovesimo anno si rientra in automatico nella casistica della naturalizzazione, in pratica è come essere nati altrove.

Sono più di un milione, al momento, le persone che vivono da straniere nel loro stesso Paese, a causa della legge 91/92, che – non sto scherzando – prevede una norma per il riconoscimento della cittadinanza a persone nate “nei territori che sono appartenuti alla monarchia austro-ungarica ed emigrate all’estero prima del 16 luglio 1920”, ma non per i figli di stranieri residenti sul suolo italiano, se non come effetto dell’acquisizione della cittadinanza da parte dei genitori. Una legge così vecchia che i primi firmatari sono tutti morti.

Per spiegare quanto questo provvedimento sia scollato dal tempo e dalla contemporaneità, oltre che profondamente discriminatorio, basta la storia di Ada Ugo Abara, che è fra le promotrici della campagna “Dalla parte giusta della storia”, lanciata a luglio 2021 dalla Rete per la Riforma della Cittadinanza, organizzazione che si è formata dalla confluenza di più associazioni e singoli attivisti.

Nata a Benin City, in Nigeria, Ugo Abara è venuta in Italia all’età di dieci anni con i genitori, ed è cresciuta in provincia di Treviso. Ora ha trent’anni, e come mi spiega: “Lavoro e pago le tasse, ma non sono ancora cittadina italiana”. Perché se acquisire la cittadinanza è già complicato per chi nasce sul suolo italiano, per chi arriva da piccolo è proprio un percorso a ostacoli che neanche alle Olimpiadi. I requisiti sono molteplici e a dir poco bizantini, ma fra i tanti c’è anche una soglia economica: tre anni di reddito continuativo.

Per non parlare della burocrazia, che non è solo una scocciatura: anche solo una gita scolastica può essere inaffrontabile, se non direttamente impossibile, per chi non è cittadino europeo. Un Erasmus? Scordatelo, a meno che tu non possa fornire ulteriori garanzie di reddito rispetto a quelle richieste agli studenti Ue. Candidarsi alle borse di studio per studenti europei se sei nata in un Paese africano? Impossibile. Candidarsi a quelle per studenti extra Ue? Pure.

“A un certo punto decido di partecipare al servizio volontario europeo” mi dice Ugo Abara. “Vado al colloquio, e poi scopro da amici che per riuscire a farsi pagare dal Paese in cui lo svolgi dovresti spostare la residenza, cosa che ti fa perdere i requisiti per la cittadinanza.” Quella fra gli italiani senza cittadinanza e l’Italia è una storia d’amore non corrisposto, o meglio: una di quelle storie sbilanciate e frustranti in cui una delle parti è costretta a supplicare per avere un minimo di considerazione. Ma se nelle storie d’amore esiste sempre l’opzione “Con le mani con le mani con le mani ciao ciao”, la storia fra una persona e il suo paese di residenza è un po’ più complicata.

In un Paese in cui il “merito” è solo un concetto in cui ci si riempie la bocca per giustificare la carriera dei soliti figli di genitori borghesi, l’esclusione di milioni di persone dai normali percorsi scolastici, formativi e lavorativi (nonché dalle esperienze sociali) riservate a chi per combinazione è nato con la cittadinanza “giusta” dovrebbe essere uno scandalo, ma scandalo non è. In particolare, dovrebbe fare scandalo che la cittadinanza sia così intrinsecamente legata al reddito, perché l’appartenenza a una cultura e l’adesione a un sistema di valori condivisi non possono essere una questione di soldi. Se poi arrivare a quel reddito è complicato dall’impossibilità di muoversi liberamente sul territorio dell’Unione, viene il sospetto che il gioco sia truccato: e se nel 1991 ancora ci voleva come minimo la carta d’identità anche solo per passare il confine con la Slovenia o la Francia, certe restrizioni nel 2022 sono solo vessatorie e pensate per difendere un’idea di “italianità” che non esiste più.

“Uno Stato che nega un diritto così semplice alle persone che nascono e crescono in questo contesto non è uno Stato giusto” osserva Ugo Abara: ma il Parlamento italiano sembra faticare da tempo (per non dire da sempre) con tutto quello che ha a che vedere con i diritti. La proposta avanzata dalla Rete per la Riforma della Cittadinanza (consultabile qui) non è la prima, e senza un sostegno ampio e condiviso da parte dell’opinione pubblica rischia di essere l’ennesima destinata a spiaggiarsi nelle secche di una politica del tutto scollegata dalla realtà e incapace di intestarsi battaglie di elementare civiltà, che hanno parecchio a che vedere sia con i diritti sociali ed economici, sia con la questione della legalità tanto cara alle destre. E invece, guarda un po’, dalle destre su questo punto nemmeno un fiato, anzi: “Abbiamo inviato l’appello a tutti i parlamentari. Quelli di destra ci hanno semplicemente ignorati.”

Chi vive qui e lavora qui deve poter votare e partecipare alla vita del Paese senza dover saltare nei cerchi di fuoco per mostrarsi meritevole. “Abbiamo rinunciato alle grandi mobilitazioni per l’emergenza Covid, e comunque farsi assegnare una piazza è complicato anche se si è in pochi” dice Ugo Abara. Il 14 febbraio, l’associazione era in Piazza Santi Apostoli, a Roma, con una piccola delegazione di rappresentanti: poche centinaia di metri più in là, a Piazza Venezia, uno sparuto manipolo di no vax si radunava in una manifestazione non autorizzata. Un lusso che chi non è cittadino non può concedersi: “Una denuncia può bloccare il percorso di acquisizione della cittadinanza. Ma puoi perdere i requisiti anche solo se i tuoi parenti sono condannati.” L’ho detto: è una legge assurda. E va riformata. È già tardi.