Diritti

Il Pd non vuole il voto delle donne

Le scelte operate per le liste delle elezioni prossime venture parlano chiaro: l’obiettivo è la conservazione del potere. A scapito di donne, minoranze e giovani
Un momento delle nozze con rito civile tra il sindaco di San Giorgio a Cremano (Napoli) Giorgio Zinno (s) e il suo compagno, l'architetto Michele Ferrante (d). A celebrare il matrimonio la senatrice dem Monica Cirinnà, 24 settembre 2016
Un momento delle nozze con rito civile tra il sindaco di San Giorgio a Cremano (Napoli) Giorgio Zinno (s) e il suo compagno, l'architetto Michele Ferrante (d). A celebrare il matrimonio la senatrice dem Monica Cirinnà, 24 settembre 2016 Credit: ANSA/ CESARE ABBATE
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17 agosto 2022 Aggiornato alle 06:30

“Ho ricevuto uno schiaffo. Ecco, sì. Le cinque dita”.

Monica Cirinnà parla durante la conferenza stampa successiva all’annuncio della sua rinuncia alla candidatura nelle liste del Pd per le elezioni del 25 settembre.

Una rinuncia legata al posizionamento deciso dal partito, che la escluderebbe dalla rielezione nonostante il suo lungo impegno sul fronte dei diritti: un impegno che ha portato all’approvazione della legge sulle unioni civili, a lungo attesa dalla comunità Lgbtq e ancora unica tutela delle coppie non eterosessuali.

Nello spazio di una notte, Cirinnà ha deciso di non mollare: correrà alle elezioni del 25 settembre, anche senza la certezza di un seggio.

Lo farà, dice, per la comunità per cui si è spesa in questi anni, alla quale sente di dovere quest’ultima battaglia combattuta come “l’ultimo dei gladiatori”.

Cirinnà non era – non è – l’unica penalizzata dalle scelte operate dal suo partito nella compilazione delle liste elettorali, concretizzate in una riunione della Direzione Pd che si è conclusa nella notte fra il 15 e il 16 agosto con una strage di nomi anche piuttosto noti e riconoscibili, tra cui si contano una ex ministra (Valeria Fedeli), uno dei firmatari della legge per il congedo di paternità obbligatorio e retribuito (Tommaso Nannicini) e la prima ad aver depositato un disegno di legge sul tema, Giuditta Pini.

Sono candidati, invece, molti grandi vecchi della politica, fra cui Pierferdinando Casini, e alcune figure che hanno sempre destato perplessità, come Beatrice Lorenzin, ex Forza Italia poi entrata nel Partito Democratico e nota al grande pubblico come ex ministra della Salute e promotrice del famoso Fertility Day del 2016, quello in cui la fertilità femminile veniva trattata come un bene comune e non come una questione di scelta personale.

Il taglio dei parlamentari confermato dal referendum del 2019 pesa non poco nel gioco delle esclusioni, e riguarda un po’ tutti i partiti, con effetti che variano a seconda delle formazioni e del loro pregresso.

Nel caso del Pd, l’unico partito discendente dalla sinistra storica italiana, la questione è qualitativa: meno seggi significa minori possibilità di essere eletti, e il partito sembra avere deciso di adottare la linea della salvezza dei notabili (per esempio Dario Franceschini, pluri-ministro dei Beni Culturali, ferrarese ma capolista a Napoli).

Scelta rispettabile, ma che cozza un tantino con la mission dichiarata del partito, che da un lato spinge moltissimo su giovani e diritti e dall’altro fa fuori senza tanti complimenti i giovani e chi si è sempre occupato di diritti (caratteristiche che nel caso di Pini, per dirne solo una, coincidono).

Anche sul versante rappresentanza femminile la situazione è piuttosto desolante, nonostante la candidatura di Elly Schlein come capolista indipendente in Emilia-Romagna, e a questo punto vale la pena ritornare con la memoria a tutte le volte in cui la dirigenza del Partito Democratico ha dato prova di non avere il minimo interesse a valorizzare le sue iscritte, per non dire le sue elette.

Non serve nemmeno andare troppo indietro: basta risalire alla formazione del governo Draghi e alla débacle dei nomi dei ministri 100% maschi, cui è seguito un maldestro tentativo di compensazione con la riassegnazione dei ruoli di capogruppo alla Camera e al Senato rispettivamente a Debora Serracchiani e Simona Malpezzi.

No, non basta assegnare delle cariche una tantum per favorire l’ingresso di nuove prospettive nella dialettica interna al partito, anzi: queste assegnazioni calate dall’alto non fanno che rafforzare l’immagine di una leadership maschile che può fare e disfare ogni cosa.

Un partito di sinistra dovrebbe valorizzare la prospettiva femminile e femminista, farla emergere, darle spazio.

Quando va bene, le donne vengono usate per fregiarsi dei grandi risultati ottenuti in materia di diritti: quando va male, vengono buttate via per fare posto ai fedelissimi, ai potentissimi o a figure più giovani prive di qualsivoglia potere contrattuale e quasi obbligate a seguire gli ordini di scuderia.

Uno strapotere, quello della dirigenza, che viene magnificato dall’eliminazione delle preferenze: l’ordine nelle liste elettorali e la presenza nei collegi è tutto. Chissà perché in questi anni nessuno si è mai preoccupato di cambiarla, questa legge elettorale.

In questo, ogni mondo (o forse dovrei dire “ogni partito”) è paese, e poco conta anche la disponibilità delle donne a farsi complici del sistema di oppressione.

Nel giro di pochi giorni, la leghista procidana Carmela Terracina è passata dall’attaccare le donne di sinistra “acide e scorbutiche” e le quote rosa, che a suo dire alle donne di destra non servivano, a lamentarsi sui social per l’esclusione dalle liste del partito guidato da Matteo Salvini, che in compenso secondo voci di corridoio (gustose, ma non confermate) avrebbe imbarcato figure del calibro di Hoara Borselli, Maria Giovanna Maglie e Annalisa Chirico.

E che dire della resistenza di Salvini, in crollo di consensi, a riconoscere a Giorgia Meloni il ruolo di Presidente del Consiglio nel caso in cui Fratelli d’Italia fosse il primo partito, anche solo della coalizione di destra? Fra i due non ci sono differenze politiche significative, ma che smacco per Salvini dover cedere a una donna, dopo anni in cui le ha trattate solo come avversarie o utili scendiletto.

Quella che esce dalle liste elettorali dei grandi partiti è un’Italia che non vuole il voto dei giovani, delle minoranze, delle donne. Che non se ne interessa, non li vuole rappresentare, salvo poi gonfiare il petto e invitarli a farsi avanti, a correre, a candidarsi, a “farsi valere”. Mai come oggi abbiamo chiaro che è una bugia; mai come oggi abbiamo percepito con chiarezza il messaggio.

La politica è roba per maschi bianchi, e i maschi non vogliono essere disturbati nel loro esercizio del potere. È una scelta, e come tutte le scelte effettuate nell’ambito delle possibilità democratiche va rispettata: ma è una scelta che dice moltissimo.

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