Bambini

Il viaggio gentile di Sabrina e Nino nella diversità

Intervista all’attrice Sabrina Paravicini, che da 4 anni porta in giro per cinema e teatri Be Kind: un film girato con il figlio Nino, autistico, che insegna a tutti l’importanza di andare oltre stereotipi e “barriere”
L'attrice Sabrina Paravicini.
L'attrice Sabrina Paravicini.
Tempo di lettura 7 min lettura
21 maggio 2022 Aggiornato alle 20:00

Dialogare con Sabrina Paravicini (entrata nei cuori del grande pubblico con la fiction Un medico in famiglia) è già un viaggio di per sé: comunica determinazione e positività, uno sguardo proiettato verso il futuro. Un approccio alla vita ormai più unico che raro, ancor più se si considera ciò che ha vissuto.

Nel 2017 ha deciso di girare, in co-regia con suo figlio, Nino Monteleone, Be Kind - Un viaggio gentile all’interno della diversità: Nino è un bambino di 12 anni a cui è stato diagnosticato a due anni e mezzo un autismo infantile severo, ma non grave. Dopo aver smesso di parlare e di guardare sua madre negli occhi, il suo isolamento interiore minacciava ogni giorno di più l’interazione con gli altri, con il mondo.

Be Kind è un film auto-prodotto, nato da una domanda di Sabrina al figlio: «Ti andrebbe di raccontarti?». Ci sono lo scrittore Roberto Saviano, con cui Nino conversa sul tema della felicità, lattore Fortunato Cerlino e lastronauta Samantha Cristoforetti che racconta a Nino il valore della diversità. E poi tanti incontri, tante vicende che parlano di limiti superati, gentilezza e di felicità possibile per tutti.

Nei quattro anni da quando Be Kind ha avuto la sua prima assoluta al Taormina Film Fest 2018 ed è stato proiettato in lungo e in largo, sono accaduti degli ‘avvenimenti’: sul piano pubblico prima il Covid e in questi mesi la guerra; sul piano privato la malattia con cui l’attrice e regista ha dovuto fare i conti (raccontata nel libro Fino a qui tutto bene e in un film di prossima uscita). Incontriamo Sabrina Paravicini alla prima edizione di In&Aut Festival svoltasi alla Fabbrica del Vapore di Milano dal 13 al 15 maggio.

Quanto è stato importante il vostro documentario sul piano della sensibilizzazione alla diversità?

«Ritengo che abbiamo anticipato una tendenza che è esplosa adesso, dopo il Covid, cioè la gentilezza, l’attenzione per la diversità. Allora non si parlava così tanto di diversity ed equity. Nel 2019 abbiamo realizzato anche il “Be Kind Award” premiando tutte le persone che si erano distinte per gentilezza. Io ero in piena chemioterapia, non so neanche come ho fatto, è come se arrivassero tutte le energie possibili perché si avverte il timore di non fare in tempo a realizzare qualcosa a cui si tiene. In quell’anno ho anche girato “B 33” sul cancro che stavo combattendo».

Pensando a Nino e alla sua storia, quali sono i diritti ancora da conquistare?

«Come affermava una mamma nel nostro film, non è tanto il “Dopo di noi” - che è una legge approvata e sulla strada per diventare efficace - quanto il “durante noi”. Dai 0 ai 14 anni il bambino disabile viene tutelato e circondato di attenzioni (anche perché i genitori sono giovani), dopo esiste un gap di inclusione a livello lavorativo. Spesso vengono portati nei centri diurni e lì non si svolgono delle professioni, sono dei contenimenti.

In&Aut Festival è stato creato da un genitore, una mia amica sta cercando di recuperare uno spazio vicino Roma per dar vita a un centro di accoglienza affinché si svolgano delle attività. Come spesso accade c’è una rete privata che si attiva per colmare dei vuoti laddove lo Stato non riesce ad arrivare perché non conosce bene le situazioni. Innanzitutto, a mio parere, per pensare a una legge, bisognerebbe fare uno screening, incontrare i genitori per comprendere cosa sarebbe bene fare concretamente. Il lavoro è importante per la dignità e restituisce autonomia. Vent’anni fa si optava moltissimo per il contenimento; oggi si guarda alla diversità come una risorsa che, a sua volta, può diventarlo sul piano professionale.

In Italia, per fortuna, dal punto di vista legislativo siamo molto avanti rispetto ad altri Paesi europei e le scuole sono arrivate dove la legge ha dei punti di rigidità. Si riesce sempre, tramite l’intelligenza delle persone, a creare virtuosismi e ottimizzazioni».

Qual è il livello di consapevolezza dei ragazzi su queste tematiche?

«Se dalle elementari hai un bambino disabile come compagno di classe diventa la tua normalità. È importante l’atteggiamento dell’insegnante quando si ha una persona con delle difficoltà. Anni fa ho partecipato a un convegno organizzato dall’ambasciata britannica ed è stato illuminante in quanto Bebe Vio ha raccontato che, quando è tornata in classe con le protesi, i suoi compagni avevano molta paura di ciò che era diventata. Lei possiede questo carattere straordinario e così si è tolta le protesi dalle braccia e le ha date loro per giocare a scherma: da quel momento la sua diversità era diventato il gioco degli altri per cui tutte le distanze si sono accorciate. A fronte di questo direi che dipende tanto dalla persona e dall’ambiente scolastico.

Le nuove generazioni crescono in classi miste, con colore della pelle differente per cui quel tipo di ‘diversità’ non gli appartiene più, e con delle problematiche come di disturbi di sviluppo dell’apprendimento. Il bambino dislessico prima veniva visto come colui che ritardava l’apprendimento degli altri; oggi viene riconosciuto, aiutato e spesso a dodici anni ottiene degli ottimi risultati».

A proposito di risorse, qual è stata quella più importante di Nino che l’ha supportata durante la sua lotta contro il tumore?

«La leggerezza. Abbiamo alleggerito tutto ciò che potesse essere connesso all’angoscia e alla paura e abbiamo vissuto un’avventura quotidiana su quelle che erano le mie modalità in quanto, in alcuni giorni la chemioterapia andava in circolo e non riuscivo neanche ad alzarmi e in altri mi riprendevo. Già mi sentivo in cura nel senso su una via di guarigione e lui non mi ha mai fatto sentire ammalata. L’unico momento in cui si è un po’ spaventato è stato quando ho dovuto rasarmi i capelli perché li stavo perdendo; poi siamo riusciti a giocare anche in quel caso. Lui si travestiva sempre con le parrucche e, a un tratto, gli ho dato la mia» (lo hanno condiviso anche sui social, nda).

Secondo lei giornate come quella sulla consapevolezza rispetto all’autismo, servono effettivamente?

«È un modo per sensibilizzare chi è più distratto, però chi si impegna rispetto al tema specifico, lo fa tutto l’anno».

Come fa a essere così propositiva nonostante ciò che ha dovuto affrontare?

«Se studiamo la storia vediamo che c’è una progressione delle cose, ritengo che sia un cammino inevitabile. Ho sempre avuto una visione più lunga di me stessa: siamo qui di passaggio, siamo ‘piccoli’ e la Storia va avanti… forse perché sono nata tra le montagne che ti insegnano come ci sia qualcosa di molto più grande di te, inesplorabile e impraticabile. Se la si pensa così, si riesce a vivere il proprio presente in maniera un po’ più leggera. Senz’altro incide pure il carattere, ma anch’io ho gli up & down, ho la fortuna di non rimanere troppo giù: probabilmente toccare certi fondi diventa una spinta per vedere le cose in maniera più ottimista».

Ha pensato di raccontarsi in teatro?

«Vorrei realizzare dal libro “Fino a qui tutto bene” qualcosa che vada un po’ al di là del monologo, con maggiore interazione con la platea, con la possibilità di porre domande e confrontarsi poiché credo che sarebbe d’aiuto. L’energia per una tournée ce l’avrei. È un tema molto forte: chi ha attraversato il tumore lo sa; chi non c’è passato ha molta paura. Tante persone sono state lasciate dai compagni e tante hanno lasciato perché non si sentivano comprese, ma era l’angoscia che aveva creato una bolla di negatività. In una malattia, se non la si governa, se non sei forte, può davvero rovinare la vita anche se si sopravvive».

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