Economia

La certificazione dei certificati

Come sta cambiando il valore dei titoli finanziari collegati alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica
Credit: Nathan Anderson/Unsplash
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5 maggio 2022 Aggiornato alle 06:30

Gli incentivi che spingono le aziende a comprare certificati di assorbimento di anidride carbonica sono potenti. Non lo sono altrettanto le motivazioni che dovrebbero spingere le aziende a cercare di capire se dietro ai certificati c’è davvero, per esempio, una riduzione di emissioni di CO2.

All’inizio del millennio si è diffusa la convinzione che la creazione di un mercato dei certificati sarebbe stata sufficiente ad attirare molte risorse alle azioni che servono per ridurre le emissioni di gas serra. Era ovviamente un’ottima idea. Ma il prodotto che si scambiava sul mercato era talmente nuovo che le dinamiche di sviluppo del concetto hanno richiesto un po’ di tempo per attivarsi in pieno.

Da una parte occorreva che si sviluppasse un sistema che connetteva il finanziamento delle iniziative di riduzione delle emissioni alla vendita di certificati. Dall’altra parte, dovevano nascere servizi che facilitassero la vita dei compratori di questi certificati.

Infine, dovevano nascere sistemi incentivanti forti, come quelli creati dai grandi investitori che hanno deciso di privilegiare le imprese che avevano una sana politica ambientale o almeno investivano in certificati che di fatto potevano sostenere iniziative ambientalmente positive.

Il monitoraggio si è concentrato sulle osservazioni quantitative. E i risultati sono stati valutati soprattutto da questo punto di vista. L’inviato speciale dell’Onu per il clima, Mark Carney, ex governatore della Bank of England, che sostiene da tempo la dinamica positiva che si innesca grazie al mercato dei certificati quando molti capitali sono attirati verso iniziative innovative dal punto di vista ambientale, è riuscito a spingere molte aziende a dotarsi di una strategia di investimento nei certificati.

Alla Cop26, come riporta il Financial Times, Carney ha detto che si potrebbe arrivare ad attrarre 150 miliardi di dollari per progetti di assorbimento di CO2 in Paesi emergenti e in sviluppo. Ma non mancano le critiche, che si concentrano su un punto: come garantire che tutti i soldi raccolti vadano davvero a ridurre le emissioni?

Un conto è comprare un certificato e ottenere il vantaggio diretto di poter essere finanziati dalle istituzioni creditizie e finanziarie che investono solo in aziende che rispettano l’ambiente, un altro conto è impegnarsi a capire quali sono le attività reali che vengono portate avanti da chi ha emesso il certificato.

Gli intermediari che controllano larga parte del mercato dei certificati non sono tutti uguali: alcuni sono impegnati a informare trasparentemente su quanto viene fatto con i soldi investiti, altri non sono altrettanto attenti a questo aspetto.

La Commissione europea si è occupata di migliorare la trasparenza dei certificati di assorbimento di anidride carbonica. E proprio in questi giorni è finita la consultazione lanciata dalla Commissione per raccogliere idee su come monitorare, segnalare e verificare l’autenticità degli assorbimenti di anidride carbonica, come riportato da ReteAmbiente nel febbraio scorso. La Commissione produrrà un’innovazione normativa nel quarto trimestre del 2022.

Questa novità avrà ovviamente un forte impatto in Europa e qualche conseguenza sul resto del mondo, vista l’importanza del mercato europeo.

Nell’attesa, il mercato globale continua a svilupparsi in assenza di un vero sistema di monitoraggio qualitativo dell’impatto reale degli investimenti in certificati di assorbimento dell’anidride carbonica. Gli intermediari in particolare non sembrano incentivati ad assumere un comportamento standard per quanto riguarda la trasparenza dell’informazione sugli effetti degli investimenti.

La domanda crescente di certificati ne sta facendo salire il prezzo ma non necessariamente il risultato in termini di riduzione delle emissioni. Laura Martin, docente al Williams College Center for Environmental Studies, ha detto al Financial Times che ci sono incredibilmente pochi dati per sapere che cosa è stato fatto con il miliardo di dollari investiti in iniziative di riduzione delle emissioni nel corso del 2021: «I venditori facilitano le transazioni, i compratori non si occupano di capire dove vanno a finire i soldi: è comprensibile, del resto, visto che dal punto di vista finanziario, non è chiaro chi ottiene benefici dalla compensazione dell’anidride carbonica».

Insomma, per ottenere quei benefici basta comprare il certificato. Sapere se le emissioni sono state ridotte non aumenta il risultato finanziario.

Per legare di più l’investimento e il risultato reale occorre una massiccia raccolta di informazioni, un approccio trasparente alla valutazione del valore reale dei certificati per l’ambiente, magari anche l’uso innovativo delle tecnologie digitali per informare e rendere comprensibili le operazioni nelle quali si investe.

Tutto questo che non è stato pensato fin dall’inizio dell’introduzione di questo sistema. Si viveva allora in un contesto culturale nel quale bastava nominare la parola mercato per generare l’impressione di lavorare per la trasparenza e di ridurre l’inefficienza.

Oggi il clima culturale è cambiato. Oggi si osserva piuttosto come le attività economiche, oltre a confrontarsi col mercato, sono densamente immerse in un complesso sistema di relazioni di interessi e di potere, come è ovvio che sia: con conseguenze non sempre favorevoli alla leggibilità qualitativa dei valori di scambio e delle conseguenti decisioni collettive di allocazione delle risorse.

Ma il mercato può essere un ottimo sistema informativo, se è progettato per questo scopo. Il che si garantisce soltanto lavorando sulle norme che lo disegnano per funzionare trasparentemente. Se non è prodotto da norme coerenti il mercato tende presto a lasciare il posto a forme di rendita di posizione. La libertà del mercato è nelle regole del mercato.

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