Diritti

Così (non) è cambiato l’Egitto

A più di un decennio dalla rivoluzione di Piazza Tahrir, le manifestazioni sono solo un lontano ricordo e i diritti umani sono stati messi in un angolo. Una prova? La storia di Patrick Zaki, intervenuto in video al Festival del Giornalismo di Perugia
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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8 aprile 2022 Aggiornato alle 15:00

«Sono sempre alla ricerca della libertà. Vorrei tornare in Italia, nella mia università, nella mia città, riprendere i miei studi normalmente. Mi mancano i miei colleghi». È deluso Patrick Zaki, l’attivista e ricercatore egiziano accusato di aver diffuso false notizie ai danni del suo Paese d’origine.

Parla al Festival internazionale del giornalismo di Perugia da remoto, il suo viso è proiettato in mezzo a una parete della Sala dei Notari, ornata di dipinti in ogni angolo. Il suo viso è sorridente, nonostante tutto: ancora non può tornare in Italia.

Il 5 aprile si è tenuta la quinta udienza del processo in corso al tribunale di Mansura, città dove Patrick è nato il 16 giugno del 1991. E per la quinta volta c’è stato un rinvio: Zaki dovrà presentarsi di nuovo davanti ai giudici il 21 giugno, con il rischio di altri 5 anni di carcere per aver scritto un articolo su alcuni casi di discriminazione in Egitto.

Zaki si è collegato per qualche minuto durante il panel intitolato “I dieci anni che non hanno cambiato l’Egitto” insieme alle giornaliste Francesca Caferri, Laura Cappon e Marina Petrillo.

È in bilico da più di due anni, lui, da quando il 7 febbraio 2020 alcuni militari lo hanno fermato all’aeroporto del Cairo e non gli hanno più mostrato il mondo esterno fino all’8 dicembre, quando è stato scarcerato, senza però il permesso di tornare in Italia: è qui che ha studiato, tra i corridoi e le aule dell’Università di Bologna.

Ha frequentato il master Gemma (European master in gender and women studies) che si concentra su temi come la valorizzazione delle diversità e il contrasto a ogni tipo di discriminazione.

Ha voluto dedicare il suo breve intervento proprio alla libertà d’espressione: «Sono stato in prigione per due anni a causa di un articolo che riguardava le minoranze copte in Egitto. Eppure, sono un privilegiato perché ci sono centinaia di persone come me ancora in prigione. Io avuto il sostegno dell’Italia, dell’Europa: sono stato fortunato a essere rilasciato anche prima del previsto».

Zaki fa i nomi di molti colleghi, di giovani giornalisti e attivisti che dividevano con lui la cella e i pavimenti sudici prima di Tora, nella periferia del Cairo, poi di Mansura.

«Dobbiamo lavorare sempre di più sulla libertà di espressione e di stampa non solo in Egitto, ma anche in Tunisia, Marocco, Arabia Saudita, Bahrein. Gli ultimi dieci anni, per queste tematiche, sono stati anni davvero orribili», ha commentato Zaki, che l’anno scorso aveva compiuto trent’anni dietro le sbarre, lontano da amici e famiglia.

Come spiega Caferri citando i dati delle Ong Amnesty e Human Rights Watch, oggi sono circa 60.000 i prigionieri di coscienza nelle carceri egiziane.

Dalle proteste di piazza Tahrir, che diedero vita a uno spazio di libertà d’espressione e divennero il simbolo della rivoluzione e delle proteste che rovesciarono il governo di Hosni Mubarak, sono passati undici anni.

Undici anni in cui la situazione non ha fatto altro che peggiorare. Secondo Marina Petrillo, che è stata senior editor della rete di organizzazioni che lavorano per l’avanzamento dei diritti umani e delle libertà civili in Italia Open Migration e ha scritto il libro Canto la piazza elettrica, su piazza Tahrir, «non si può prescindere dal fatto che uno degli eserciti più potenti del mondo governa un Paese di più di 80 milioni di abitanti attraverso il carcere, la censura, l’abolizione della stampa indipendente, gli arresti per un post su Facebook, il ricatto professionale, la continua minaccia».

Alla rivoluzione del 2011 gli egiziani avevano creduto veramente ed è stato difficile ricominciare dopo una delusione simile: «Le persone che aspettano tempi migliori sono tante in Egitto, e lo dimostra il breve momento, che nel 2019 costò una repressione e un giro di vite delle carceri durissimo, in cui sembrava che le strade sarebbero tornate a riempirsi», dice Petrillo.

Laura Cappon, che nel 2022 ha pubblicato una graphic novel dal titolo “Patrick Zaki. Una storia egiziana”, ripensa alle rivolte che nel 2011 coinvolsero diversi Paesi e che nel 2019 si diffusero in Algeria e Sudan: «Se dovessimo mettere un punto adesso, non si salverebbe nessuno: non solo l’Egitto, ma anche la Tunisia, per esempio, che sembrava l’unico Paese che stava tentando di andare avanti, pur con mille difficoltà. Però si tratta di processi storici molto lunghi, e non si può pensare che un Paese abituato a stare sotto una dittatura per decenni cambi registro da un giorno all’altro. Servirebbe anche più sostegno internazionale, che finora è completamente mancato».

È stata la società civile, invece, a fare passi da gigante nella direzione dei diritti umani e colmare il vuoto lasciato dalla politica: «Se non ci fosse stato il martellamento di Amnesty, per esempio, casi come quello di Giulio Regeni sarebbero stati chiusi, e Patrick Zaki non sarebbe stato preso in considerazione perché cittadino egiziano e non italiano».

La fiamma parte sempre dal basso. Accadrà anche in Egitto, di nuovo?

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