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Lara Lago: «Fatevi i corpi vostri»

Il 12 aprile, la giornalista e attivista veneta sarà alla Casa delle Donne di Milano per parlare di body positivity e grassofobia. «Nessuna condizione deve rappresentare un limite nel diventare ciò che si vuole», ha rivelato a La Svolta
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11 aprile 2024 Aggiornato alle 13:00

«In una società che trae profitto dalla tua insicurezza, piacersi è un atto rivoluzionario».

Partendo da questa affermazione della giornalista e attivista Lara Lago, domani 12 aprile alle 19:00, alla Casa delle Donne di Milano, si parlerà del valore di ogni corpo per smantellare il concetto di bellezza, per provare a decostruirci, a liberare lo stigma che abbraccia i corpi grassi e per diventare le persone che siamo.

“Becoming who I am” è, infatti, la lezione più grande imparata e diffusa da Lara Lago; l’attivista ne ha parlato con La Svolta.

Nel corso dell’incontro a La casa delle Donne di Milano, parlerà di body positivity, paternalismo e grassofobia. Potrebbe spiegarci cosa significano esattamente questi termini e perché possono essere inseriti in una discussione sui “diritti delle donne”?

La body positivity nasce come movimento sociale che ci dice che “ogni corpo vale” e ha pari diritti, a prescindere dalla sua taglia, forma, dal colore della pelle, dal genere e dall’abilità fisica. Come dice il termine stesso, c’è un atteggiamento positivo nei confronti del corpo, spesso le esponenti della body positivity, in passato, hanno detto che “ogni corpo è bello” o che la bellezza non è una questione di taglia. Ma la lotta alla grassofobia tra i suoi obiettivi ha quello di smantellare il concetto di bellezza, ribadendo che le donne specialmente non devono bellezza a nessuno. Eppure continua a essere un requisito fondamentale in ogni campo e lo capiamo quando, ancora, gli annunci di lavoro richiedono la “bella presenza” anche, semplicemente, per una mansione da cameriera in pizzeria.

La grassofobia è l’insieme delle discriminazioni che ogni giorno una persona grassa deve vivere: dal non trovare vestiti nei negozi, alla difficoltà a viaggiare o a stare in spazi pubblici, fino all’avere diagnosi mediche tardive. La grassofobia comprende anche la paura di diventare grassi, una paura enfatizzata quotidianamente dalla mancanza di rappresentazione di corpi diversi dalla norma e dal modello di magrezza come unica via possibile e come sinonimo indiscusso di salute.

Cosa le ha insegnato l’esperienza da ragazza curvy?

Più che “curvy” preferisco definirmi una donna “grassa”. C’è ancora tanto stigma attorno a questa parola che sembra quasi un insulto, mentre magro, invece, è un aggettivo del tutto neutro e, a volte, ha addirittura una connotazione positiva. Non si tratta di un’esperienza, si tratta di tutta la mia vita, con la differenza che fino ai 27 anni era una condizione, quella della grassezza, che non accettavo e che facevo di tutto per combattere. Dopo un bel po’ di diete, ansia e attacchi di panico, dopo aver vissuto 3 anni all’estero, prima in Albania e poi ad Amsterdam, ho capito, però, che a rincorrere il mito della magrezza e della bellezza si perdono solo tempo, soldi e felicità.

Perché la parola curvy è così problematica in Italia?

Perché per curvy si intende una donna con le curve (tanto seno, tanti fianchi, pancia piatta) quindi una donna che ha un corpo conforme con più “sostanza nei punti giusti” (Lago specifica che questi termini vanno messi tra virgolette perché sono le parole che userebbe un uomo che giudica una donna attraverso il suo male gaze, ndr). Curvy, inoltre, è un termine, purtroppo, ancora molto usato dal mondo della moda: c’è la collezione di vestiti curvy, ci sono le modelle curvy, le sfilate curvy. Ma è solo un modo per dire che va bene essere un po’ grasse ma occhio a non esagerare.

Parafrasando il suo libro Il peso in avanti, che giro bisogna fare per liberare il proprio corpo dalle costrizioni della società?

Una buona scorciatoia può essere decostruirsi, disimparare quello che ci hanno insegnato su ciò che deve fare una brava signorina, capire perché siamo così ossessionati dalla magrezza, da dove arriva questa esigenza del tutto occidentale. Il femminismo e, appunto, i testi della Fat Liberation, da Fearing the black body di Sabrina Strings fino a Fat shame di Amy Erdman Farrell mi hanno molto aiutato. Pensiamo sempre di vivere un disagio individuale legato all’apparenza e al giudizio sui nostri corpi, noi da sole di fronte a uno specchio dove non ci andiamo mai bene. E invece è un sentire universale, che è nato prima di noi.

Nel suo libro racconta che, durante la sua esperienza ad Amsterdam, ha avuto un incontro importante, quello con il suo corpo. Che cosa ha significato questo, per lei?

Ha significato riuscire a vivere in modo del tutto diverso la mia vita. Ho sempre sognato una società dove ogni individualità potesse esplodere nel proprio modo più autentico, più libero, più vero, con i propri colori, senza giudizio, senza paura. Ma diciamo che era un sentire che percepivo più come un’utopia che come una concreta possibilità. Amsterdam, invece, mi ha insegnato che un’altra società è possibile, dove ognuno fa il tifo per vedere fiorire il proprio collega, senza competizione. Va detto che non è stata tanto la città in sé ma la mia esperienza personale: lavoravo in un’azienda che si occupava di produzione di video digital online, avevo colleghi da ogni parte del mondo. Tutto posava sulla diversità, ognuno incoraggiava l’espressione libera dell’altro. Sono diventata responsabile dei contenuti di un canale video mentre, giorno dopo giorno, mi spogliavo sempre più delle mie sovrastrutture, del “non posso andare in ufficio vestita così”.

Arrivavo dall’Italia, dal Veneto, dove avevo imparato a essere sempre vestita super femminile, tacchi e scollatura, quasi come fosse una necessità, come se il mio corpo fosse, a tutti gli effetti, uno strumento di lavoro. Facevo la giornalista nella cronaca locale: se ero piacente riuscivo a raccogliere più notizie, più informazioni. Ad Amsterdam ho giocato con il mio corpo, ho fatto gli esperimenti. Ho provato ad andare in ufficio senza tacchi ed era la normalità di tutte le mie colleghe. Poi ho tolto il trucco, e nessuno mi diceva nulla. Ho provato a presentarmi a lavoro in tuta, in leggins, poi persino con l’ombelico scoperto. Un ombelico su una taglia 50, non proprio una cosa così comune da vedere. Non solo nessuno commentava o criticava il mio corpo ma, anzi, facevo sempre più carriera in quell’azienda, mentre, tutto intorno, tutti i miei colleghi continuavano a fare il tifo per me. Mi dicevano cose come: “Lara finalmente! Si vede che ora sei davvero tu”. Ho voluto provare a portare quella sensazione che un’altra società è possibile anche in Italia. Dopo Amsterdam, mi sono tatuata una frase che dice “Becoming who I am”, diventando quella che sono, la mia lezione più grande.

Perché la percezione del proprio corpo cambia così tanto all’estero, rispetto all’Italia?

Perché un Paese come l’Olanda è molto più avanzato rispetto a noi sui temi del femminismo e la liberazione dei corpi è una conseguenza. Puoi trovare anche taglie grandi nei negozi, dall’intimo ai jeans, c’è molto meno catcalling. Nelle pubblicità, in televisione, le modelle, le conduttrici, le giornaliste hanno tutti i tipi di corpi. Ci sono anche i corpi con la chirurgia estetica, ma non solo quelli. È facile percepire il proprio corpo in un entourage che lo riconosce e che non lo considera diverso perché tutto è diverso.

Liberare la bellezza da uno standard: quanta strada occorre fare in Italia per riuscirci e a quale prezzo?

Io vedo ancora tantissima strada davanti da fare. Qui non sta passando il messaggio della lotta contro la grassofobia nel modo corretto. Si pensa che sia una promozione all’obesità, che si dica “grasso è bello” quando invece stiamo solo dicendo (io e le altre attiviste che in questi anni stanno facendo sentire la propria voce) “fatevi i corpi vostri”, non commentate i corpi degli altri, non fate diagnosi con lo sguardo, non pensate che grasso sia sinonimo di malato. Non lo è. Quando avremo capito tuttə questo, possiamo fare il passettino dopo: se una persona grassa non ha colpa, allora se do a tutti i corpi la possibilità di essere raffigurati ovunque, non sto promuovendo niente, se non una società più sana. Inizieremo così ad avere giornaliste anche grasse, anche nere, anche con il velo, anche con disabilità che leggono il tg o conducono programmi tv.

Da casa, le giovani spettatrici capiranno che non è più l’eccezione: tutto ciò diventerà la regola. Ragazze grasse, nere, con il velo, con disabilità che guardano da casa sapranno che si può, che nessuna loro condizione dovrà essere un limite nel diventare tutto ciò che vogliono. Serve fare spazio, portare tantissimo rispetto, mettersi in ascolto, creare possibilità, anche e soprattutto economiche, di lavoro, riconoscere il proprio privilegio, non ergere muri di fronte ad alcuna minoranza ma prenderla come un’opportunità di cambiamento, di miglioramento. Perché l’Italia è già così. Solo che non lo sa.

Quando smetteranno e smetteremo di giudicare le donne?

Quando gli uomini si educheranno e faranno il percorso che noi stiamo già facendo. Quando si metteranno in discussione, o almeno in ascolto, quando capiranno che non esiste nulla di più sexy di un uomo femminista, che non sessualizza il tuo corpo ma lotta al tuo fianco. Quando non verremo più trattate come mucche al mercato del bestiame, dove una coscia o una scollatura servono a fare da sfondo a una pubblicità di un’auto o a far fare un click in più su un articolo su un sito. Quando saremo più sicure di noi stesse, della nostra sorellanza, rendendoci conto che c’è poco da lucrare su una donna che ha smascherato la cultura della bellezza. Quando capiremo che non abbiamo più tanto tempo da perdere.

Leggere il suo libro, immergersi nella sua esperienza, vedere chi è lei oggi, può dare sicurezza ma, per certe persone, non basta. Se potesse dare IL consiglio per accettarsi e per rispettare il proprio corpo, cosa direbbe?

Studiare i gender studies, i fat studies; essere curiose, andare alla radice del perché il patriarcato ha sempre voluto controllare i nostri corpi. Quello schifo che una persona sente perché non si considera abbastanza bella o magra e si vergogna, non è solo un sentire isolato: è di tutte, è stato delle nostre madri e delle nostre zie. E se è di tutte, evidentemente c’è qualcosa che non va.

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