Diritti

Selene Biffi: «Creare opportunità di lavoro per le afghane ha grande impatto su famiglie e comunità»

L’imprenditrice sociale sta tornando in Afghanistan con tre nuovi progetti dedicati alla formazione imprenditoriale, alla salute femminile, alla sicurezza alimentare; ha raccontato a La Svolta il suo percorso e le sfide che la attendono
Selene Biffi
Selene Biffi Credit: Photo credits: Daniele Di Mico
Editing: Rocco Di Liso
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 10 min lettura
7 marzo 2024 Aggiornato alle 16:00

Sta per tornare a Kabul, Selene Biffi, l’imprenditrice sociale originaria di un piccolo paesino di Monza e Brianza che ha passato metà della sua vita a cercare un modo per aiutare gli altri, prima i giovani e poi le donne, imprenditrici come lei. Ha creato la no-profit She Works for Peace, per dare loro nuove opportunità di impiego; Bale Khanom, un centralino telefonico per le afghane che hanno bisogno di consulenze per le loro attività; Abzar, la biblioteca degli attrezzi di Kabul. E tante altre.

L’Afghanistan è una terra che Biffi ha conosciuto quando era ancora una studentessa universitaria (e volontaria) e che ora rivede con gli occhi di una persona che ha diversi progetti alle spalle, e ne ha in mente altrettanti per il futuro: i prossimi, che partiranno tra marzo e aprile 2024, riguardano formazione imprenditoriale, salute femminile e sicurezza alimentare. Quando ha fondato la sua “scuola per cantastorie” a Kabul nel 2013, c’era solo una studentessa tra i diplomati del primo corso. Poi, negli anni, la Qessa Academy è diventata un istituto interamente al femminile.

Oggi la condizione delle afghane si è aggravata: da quando i talebani hanno ripreso il potere nell’agosto 2021, sono state private dei diritti fondamentali. È stato limitato il loro accesso all’istruzione, al lavoro e agli spazi pubblici, e sono state obbligate a coprirsi dalla testa ai piedi in pubblico, lasciando uno spiraglio solo per gli occhi. Il lavoro di Biffi punta sulla microimprenditorialità femminile a livello domestico, una delle poche attività lavorative ancora permesse alle donne dal governo talebano.

Il suo progetto She Works For Peace è nato proprio per dare un sostegno alle donne afghane. Come le ha aiutate?

Nel primo anno con un supporto di tipo finanziario, tecnico e di mentoring che ha coinvolto oltre 300 imprese femminili in quattro regioni diverse del Paese, di cui due rurali. Era un supporto one-to-one dove il caso studio è stata la riapertura e il recupero di un pastificio a conduzione femminile, passato da 2 a 15 donne che lavoravano 5 giorni a settimana. C’è stato un incremento veramente notevole di vendite e produzioni, con il nostro aiuto hanno comprato macchinari, costruito una stanza in più per allargare la produzione. Le donne realizzavano a mano tovaglie, sciarpe, orecchini, gioielli di vario tipo, e le vendite online ci permettevano di raccogliere fondi che venivano rimessi nell’organizzazione e ci consentivano poi di raggiungere altre donne. L’idea era quella di cercare di avere anche un impatto oltre che più ampio, anche più sostenibile, sia a livello di continuità che a livello di profondità.

A fine 2023, grazie al supporto del Fondo di Beneficenza di Banca Intesa, sono riuscita a far partire Bale Khanom, che significa “Pronto, signora”: un centralino offre accompagnamento manageriale e imprenditoriale alle donne che gestiscono una micro-impresa tra le mura di casa, uno dei tre ambiti ancora aperti alle donne insieme ai lavori legati al contesto sanitario e a quelli legati alla scuola primaria, fondamentalmente. Secondo dati delle Nazioni Unite, al giorno d’oggi il 10% delle famiglie in Afghanistan sopravvive grazie a queste micro imprese. Non è una cosa banale, perché 20 milioni di persone, quindi più o meno il 50% della popolazione, vive grazie all’aiuto umanitario. Le microimprese a livello domestico sono il salvavita in tante situazioni di necessità.

Quali sono le richieste di chi chiama Bhale Khanom?

Al giorno d’oggi riceviamo centinaia di chiamate tutte le settimane da metà delle regioni dell’Afghanistan. Chi chiama riceve un aiuto gratuito da 6 operatrici afghane che ho formato direttamente. Hanno tantissime domande e richiedono l’aiuto più variegato: c’è la ragazza che prima studiava ingegneria all’università e oggi non può più farlo, quindi vorrebbe aprire una microimpresa per vendere prodotti su Instagram. C’è la signora che dice: “Io ho tanti clienti, però a fine mese non ho mai soldi in tasca, cosa sto sbagliando?” e allora vediamo insieme come si può ricalcolare il prezzo cominciando dai costi dei materiali. C’è chi dice: “Io faccio tutte queste cose, ma lavoro solo sei mesi l’anno, quali altri prodotti posso sviluppare in maniera tale che il lavoro sia continuativo?”. Tante ci chiamano dicendo di voler aiutare la propria famiglia, ma di non aver mai gestito un business né aperto una startup: “Che cosa mi suggerite?”. Hanno tantissime domande di ordine pratico che riguardano management, marketing, contabilità, trovare clientela, vendite.

A febbraio avete lanciato un altro progetto dedicato alle donne, Abzar, una sorta di biblioteca degli attrezzi.

Abzar vuol proprio dire “attrezzi” in lingua dari, una delle lingue ufficiali dell’Afghanistan. È un progetto realizzato grazie al Rotary Club di Ferrara e ai Rotary Club dell’Area Estense. Si tratta di uno spazio fisico a Kabul dove le donne possono venire a prendere in prestito utensili, attrezzi, piccoli macchinari utili per la produzione a livello domestico. Secondo i dati della Camera di Commercio afghana i settori in cui c’è una presenza più massiccia di donne sono la sartoria, la produzione alimentare, l’artigianato, il ricamo e la produzione di tappeti. Perciò abbiamo comprato tutti quegli attrezzi utili a supportare questi settori: macchine da cucire, telai per il ricamo, kit che servono per la lavorazione del legno piuttosto che dei gioielli, ecc… Le donne li prendono in prestito, li portano a casa, li utilizzano e poi li riportano indietro, come farebbero con un libro se uno lo prendesse in prestito per leggerlo.

Sia Bale Khanom che Abzar rispondono a bisogni molto specifici: non abbiamo numeri attuali, perché ovviamente sono cambiate molte cose, ma prima dell’agosto 2021, secondo i dati della Camera di Commercio afghana, c’erano circa 2.400 imprese femminili registrate e 58.000 imprese femminili di tipo informale. Oggi non abbiamo chiarezza su quante siano le realtà gestite da donne, però quando leggo report e interviste, e quando parlo con le afghane con cui lavoriamo tutti i giorni e con cui ho lavorato in passato, loro vanno a identificare problematiche che sono comuni a tutte: le conoscenze di tipo tecnico, l’accesso ai mercati, l’accesso ai materiali, la qualità, il disegno di prodotto, l’accesso ai finanziamenti, l’accesso all’energia. I progetti che sviluppiamo come She Works for Peace cercano di rispondere, in maniera molto semplice e su scala ridotta, a quelle che sono le problematiche principali identificate dalle donne che già gestiscono una microimpresa o che vorrebbero aprirne una. Bale Khanom si inserisce nel filone del supporto di tipo tecnico e dello sviluppo, mentre Abzar consente l’accesso ai materiali, ai macchinari e agli strumenti.

E i progetti di marzo e aprile, a che necessità rispondono?

Vogliamo andare a creare opportunità di impiego femminile, di formazione tecnica e di partecipazione anche nei settori della formazione tecnica, della salute femminile e della sicurezza alimentare, che in questo momento sono pregnanti per l’Afghanistan. Il sistema sanitario è imploso ad agosto 2021, quindi ultimamente molto lavoro viene fatto per creare ospedali, nuovi posti letto e quant’altro, però rimangono grosse problematiche rispetto alla presenza di personale formato, piuttosto che all’accesso alle medicine, specialmente nelle zone rurali. Metà della popolazione sopravvive grazie agli aiuti umanitari e il Paese è interessato dalla siccità da 3 anni a questa parte. La partecipazione femminile e la creazione di opportunità di lavoro per le donne hanno un impatto molto rilevante su famiglie e comunità.

In tutti questi anni, ha visto l’Afghanistan subire molte trasformazioni. Che cosa l’ha colpita di questo Paese?

Dalla prima volta che ci sono stata sono passati 15 anni circa. Nel 2009, con l’agenzia della Nazioni Unite Unv, sono andata in Afghanistan per lavorare alla creazione di un sussidiario illustrato da distribuire nelle zone rurali che potesse parlare di salute, sicurezza alimentare, mitigazione dei disastri naturali. Nel 2013 sono tornata per aprire una scuola per cantastorie, la Qessa Academy, grazie al premio di 50.000 dollari del Rolex Awards for Enterprise (sezione “young laureates”). Da un lato volevamo preservare il patrimonio culturale orale di un Paese in cui l’oralità, la poesia, il saper raccontare storie era una caratteristica molto pregnante della cultura afghana. E dall’altro utilizzare tali storie (“qessa” in persiano) per riuscire a formare un pubblico principalmente analfabeta: all’epoca il tasso di alfabetizzazione era intorno al 26%, l’Afghanistan era il 6° paese con alfabetizzazione più bassa dopo 5 Paesi africani (nel 2021, secondo i dati dell’Unesco, era circa al 37%, ndr). Il progetto è durato 7 anni.

Nel 2021 sono stata evacuata a luglio, poco prima della presa di Kabul. Ho lavorato tanto per portare fuori dal Paese le famiglie, la gente mi chiamava giorno e notte pregando di salvarla. Ho cominciato a creare una rete informale per distribuire contante a chi ne aveva più bisogno. Poi sono tornata a dicembre 2021 e tante donne che avevamo aiutato mi hanno detto: “Sappiamo che questo aiuto economico non potrà andare avanti per sempre, quindi vorremmo poter tornare a lavorare”. È anche grazie a queste richieste dirette che è nata l’idea di She Works For Peace. In tutti questi anni, e dopo tutti questi progetti, posso dire che quel che non è cambiato in Afghanistan è (e lo so che è una parola un po’ abusata) la resilienza. Dai 40 anni e passa di guerra, alle difficoltà che si possono avere in questo momento e tutto quello che ne consegue, le afghane e gli afghani hanno sempre avuto la capacità di affrontare qualsiasi tipo di difficoltà e sopravvivere.

Qual è il ricordo che si porta dietro dall’Afghanistan?

Con la scuola per cantastorie a Kabul creavamo opportunità lavorative per ragazzi e ragazze disoccupati tra i 18 e i 25 anni. C’erano 3 macromaterie: storytelling, che racchiudeva anche il teatro e la scrittura creativa; community development, che li formava su tematiche affrontate dalle Ong, che poi li assumevano; inglese. Un giorno, quando due donne vengono a visitare la scuola e chiedono ai nostri studenti quali fossero i loro desideri e come questa scuola li potesse aiutare, un ragazzo si alza in piedi e ci dice una cosa inaspettata: “In una cultura come la nostra, dove essere giovani non ha valore aggiunto, a nessuno interessa sentire quello che pensiamo, io in sei mesi qui ho imparato che posso avere fiducia in me stesso. Io non ho più paura di alzarmi in piedi e dire quello che penso”. Una presa di coscienza rispetto alle proprie possibilità e al proprio ruolo all’interno della società. È un po’ la cosa a cui penso se dovessi descrivere il mio lavoro in maniera sintetica.

E poi c’è un altro ricordo, legato all’unica ragazza che si diplomò nella primo anno della scuola (le cose poi sono cambiate, perché negli ultimi 2-3 anni tutti e 15 i posti disponibili erano occupati da studentesse): quando è entrata per la prima volta nel mio ufficio è rimasta un attimo spiazzata. Non ha parlato con me, ma con il signore afghano che lavorava come mio assistente a quell’epoca. Tempo dopo mi ha confessato che pensava che io fossi la segretaria e lui il direttore. Quando ha capito la situazione, si è detta: “Se ce la fa lei, posso farcela anch’io. Voglio diventare un avvocato”.

She Works For Peace è attiva anche in altri Paesi oltre all’Afghanistan?

Nel primo anno di attività abbiamo realizzato due piccolissimi progetti in Ucraina e in Siria, e supportato famiglie afghane fuggite dal Paese e arrivate in Italia. Ho anche dei contatti diretti a Gaza. Vorremmo poter espandere altrove il nostro approccio, che lega la creazione di opportunità lavorative, la formazione tecnica, la partecipazione a livello locale, l’imprenditoria sociale, per cercare di ricostruire un tessuto economico e sociale partendo proprio dalle donne. Vorremmo che diventasse un modello da diffondere il più possibile.

Leggi anche
Afghanistan
di Giulia Della Michelina 3 min lettura
Diritti umani
di Valeria Pantani 5 min lettura