Diritti

Missione reporter di guerra

Dall’inizio del conflitto ucraino, 5 giornalisti hanno perso la vita e decine sono stati feriti. Mestiere più che mai fondamentale, il giornalismo sul campo richiede però una preparazione per ridurre i rischi. Dai corsi alle attrezzature ai contatti sul luogo, niente va lasciato al caso
Il fotografo palestinese Moahmmed Asad mostra la telecamera distrutta durante uno scontro a fuoco al confine tra Israele e la striscia di Gaza (EPA/MOHAMMED SABER)
Il fotografo palestinese Moahmmed Asad mostra la telecamera distrutta durante uno scontro a fuoco al confine tra Israele e la striscia di Gaza (EPA/MOHAMMED SABER)
Tempo di lettura 4 min lettura
17 marzo 2022 Aggiornato alle 15:30

Libri, serie tv, film, persino fumetti. Esiste un racconto del giornalismo di guerra che fuori da un conflitto armato, da lontano, appare in modo diverso da quello che realmente è. Sicuramente affascinante e pericolosa, con la guerra tra Ucraina e Russia la professione è tornata al centro della scena mediatica. Anche dopo le notizie dei reporter uccisi in Ucraina, saliti a 5 in 3 settimane, oltre ai numerosi attacchi subiti dai giornalisti e registrati in ogni parte del Paese, e alle decine di feriti.

Gli ultimi a perdere la vita sono stati il cameraman irlandese della Fox News Pierre Zakrzewski e la producer ucraina Alexandra Kuvshinova, colpiti mentre erano in auto vicino al villaggio di Gorenki, nei pressi di Kyiv, sulla strada per Irpin. Insieme a loro c’era anche il corrispondente dell’emittente Benjamin Hall, rimasto ferito in modo grave e sottoposto a diverse operazioni. Tra le denunce online di colleghi, quella del producer ucraino Alik Sardarian (la figura del producer è intermedia tra il tecnico e il giornalista, e si trova tipicamente sul posto), descrive una situazione spesso non considerata da chi guarda un conflitto davanti alla tv: la sicurezza dei reporter.

Alik non usa mezzi termini per dare la colpa della morte dei due all’emittente televisiva, e racconta come Zakrzewski e Kuvshinova non dovessero trovarsi nel luogo dove sono stati uccisi.

Tra le motivazioni, la poca conoscenza dei luoghi e i possibili pericoli anche nel percorrere una certa strada: nella denuncia affidata ai social, Alik descrive infatti come molti producer e fixer ucraini (chi conosce la lingua e i luoghi, gli usi locali e i personaggi chiave) ingaggiati da media internazionali, non abbiamo esperienze di lungo corso e le competenze adatte per guidare i giornalisti.

Per essere in una zona di guerra e ridurre i rischi nelle aree di conflitto ci sono infatti alcuni passaggi necessari: da una assicurazione specifica a una linea di contatto continua con colleghi sul posto, un’attrezzatura adeguata, la conoscenza approfondita della regione, e un corso preparatorio.

Il CPJ (Committee to Protect Journalists), organizzazione non profit statunitense per la protezione dei giornalisti e della libertà di stampa, ha raccolto alcune indicazioni e prescrizioni di base per i reporter impegnati in zone di guerra, ma non è l’unica.

In Italia e all’estero esistono dei veri training in grado di preparare i giornalisti a fare il loro lavoro in zone di guerra e fornire loro una formazione di base per ridurre i rischi con esercitazioni sul campo. Prima della pandemia, per esempio, il Ministero della Difesa, lo Stato Maggiore della Difesa e la Federazione Nazionale della Stampa hanno provato a mettere insieme militari e giornalisti con un corso per operare in aree di crisi presso il COI, il Comando Operativo del vertice Interforze di Roma, e poi in giro per le basi militari dell’Aeronautica, dell’Esercito, della Marina Militare e dei Carabinieri.

In volo su un elicottero, in mare a bordo della nave San Giorgio, indossando elmetto, giubbotto antiframmentazione, maschera antigas e zainetto con la razione K (le scorte di cibo utilizzate dall’Esercito durante le missioni di almeno un giorno). Con poche ore di sonno e sotto stress, i giornalisti hanno anche partecipato a una dimostrazione di attacco a un convoglio.

In questi anni però anche il mondo del giornalismo è cambiato, tra un podcast e una diretta su Instagram, lasciando spazio a reporter e fotografi indipendenti che scelgono di recarsi a proprie spese nei luoghi dove si svolgono gli eventi, vendendo in un secondo momento servizi, articoli, video e foto.

A differenza di altre guerre, la vicinanza geografica con l’Ucraina ha aumentato la possibilità di raggiungere più facilmente i confini del Paese al centro del conflitto: se non è chiaro quanti giornalisti italiani siano ancora al momento in Ucraina, Stati Uniti e Regno Unito ne hanno mandati sul campo oltre 50 ciascuno.

Il New York Times, in un articolo intitolato Come verifichiamo il nostro reporting nella guerra in Ucraina racconta come i giornalisti stiano assistendo agli eventi sul campo mentre si svolgono, riportando da campi di battaglia, ospedali, rifugi antiaerei improvvisati e città contese. “Ci fidiamo innanzitutto dei nostri corrispondenti sul campo. Nelle situazioni in cui non possono essere fisicamente presenti, lavoriamo per ottenere informazioni affidabili e in prima persona sugli eventi, intervistando testimoni in tutta la regione. Ci sforziamo di vedere attraverso la nebbia della propaganda e della disinformazione che arriva dai governi di entrambe le parti del conflitto”. Investendo sempre nel buon giornalismo di qualità.

Leggi anche