Diritti

Quel Processo per stupro che sconvolse l’Italia. E che andrebbe rivisto oggi

Nel 1979 la Rai entrò per la prima volta nelle aule di un tribunale durante un dibattimento per violenza sessuale. Memorabile l’arringa dell’avvocata Tina Lagostena Bassi, che chiese «non una condanna, ma giustizia per tutte le donne»
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1 marzo 2024 Aggiornato alle 20:00

Nel 1979 l’umanità aveva già saltellato sulla Luna da un decennio, da 9 anni in Italia si poteva divorziare ed era da poco entrata in vigore la legge 194 sul diritto all’aborto.

Eppure, le immagini che la Rai mandò in onda il 26 aprile in seconda serata e che furono seguite da 3 milioni di spettatori (saliti a 9 milioni nella replica di ottobre in prime time) aprirono gli occhi della società civile sulla mentalità sessista, maschilista e patriarcale che aleggiava ancora nelle aule dei tribunali. E che riecheggia anche nei dibattimenti di oggi, vedi le 1.400 domande per 22 ore di udienza a cui è stata sottoposta Silvia, la studentessa italo-norvegese del processo contro Ciro Grillo e il suo gruppo di amici (il 7 e 8 marzo ci saranno le consulenze tecniche di parte civile).

Il documentario, girato da sei giovani filmaker e registe nel 1978, si intitolava Processo per stupro. Per la prima volta le telecamere riprendevano un dibattimento giudiziario per violenza sessuale ai danni di una 18enne di Latina, difesa dall’avvocata femminista Tina Lagostena Bassi che aveva già assistito Donatella Colasanti contro gli assassini del Circeo.

La ragazza, di nome Fiorella (il cognome venne sempre omesso anche se appariva a volto scoperto nei filmati), era stata attirata in una villa di Nettuno con la scusa di un lavoro da segretaria e abusata da 4 uomini, che prima confessarono e in seguito ritrattarono dicendo che la giovane fosse consenziente in cambio di 200.000 lire, mai date perché i rapporti furono “insoddisfacenti”.

Il processo arrivò dritto alla pancia del Paese, che assistì incredulo al passaggio di Fiorella da vittima ad accusata, al clima di complicità e connivenza maschile tra avvocati, imputati e giudici, alla condanna morale della ragazza screditata e fatta passare per adescatrice. Obbligata anche a ripercorre con dovizia di particolari morbosi i momenti degli stupri, Fiorella rifiutò l’offerta di risarcimento di 2 milioni di lire, nonostante fosse una lavoratrice precaria e di estrazione non certo borghese, in cambio di una sola simbolica lira da devolvere ai centri antiviolenza.

Il documentario di Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Rony Daopulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio e Loredana Rotondo vinse il Gran Prix Italia e una copia è conservata negli archivi del Museum of Modern Art di New York. Fu il primo format di processo televisivo e contribuì alla richiesta di una nuova legge che andasse oltre il Codice Rocco, che definiva la violenza sessuale come un reato contro la morale e non contro la persona.

Legge che arriverà, però, solo nel 1996 (15 febbraio 1996, n.66).

«Per noi fu una sfida professionale ma anche militanza femminista», ha ricordato Loredana Rotondo in una recente intervista sul caso del processo in corso contro Ciro Grillo.

«La tecnica degli avvocati e del giudice era quella di demolire Fiorella, di fare a pezzi la sua vita per dimostrare che se durante uno stupro non reagisci e ti fai ammazzare, vuol dire che sei consenziente. Non so perché la Rai non lo ripropone oggi: bisognerebbe farlo vedere nelle scuole, nelle università, nelle aule di Giurisprudenza».

Su RaiPlay è disponibile l’arringa, appassionata e modernissima, dell’avvocata Tina Lagostena Bassi, in cui con fierezza dichiarava che «la vera imputata è la donna. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare venire qui a dire non è una puttana”. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono laccusatore di un certo modo di fare processi per violenza».

E ancora, sul risarcimento «buttato sul tavolo come una mazzetta» e rifiutato «perché noi donne riteniamo che una violenza carnale sia incommensurabile. Questa ragazza così venale, che andava con uomini per soldi, vero?, e sulla quale voi butterete fango, butterete fango a piene mani, bene, questa ragazza così venale vuole una lira e vuole la somma ritenuta di giustizia devoluta al Centro contro la violenza sulle donne, perché queste violenze siano sempre meno, perché le donne che hanno il coraggio di rivolgersi alla giustizia siano sempre di più».

E sulla condanna: «Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia. Chiediamo che anche nelle aule dei tribunali si modifichi quella che è la concezione socio-culturale del nostro Paese, si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto».

L’arringa di Lagostena Bassi, figura di spicco della lotta per i diritti delle donne in Italia, rimane memorabile anche in rapporto alle sconcertanti parole degli avocati della difesa, che ancora a fine anni Settanta pronunciavano frasi così: «Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare luomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Vi siete messe voi in questa situazione e allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».

E persino: «La violenza c’è sempre stata. Non la subiamo noi uomini? Non la subiamo noi anche da parte delle nostre mogli? E come non le subiamo? Io oggi per andare fuori ho dovuto portare due testi con me! Testimoni che andavo a pranzo con loro, sennò non uscivo di casa. Non è una violenza questa? Eppure mia moglie mica mi mena».

Tre dei quattro imputati furono condannati a un anno e otto mesi di reclusione, uno di loro a due anni e quattro mesi. Tutti però beneficiarono della libertà condizionale e non videro mai la galera.

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