Culture

Storia dei “nostri” soldi: Melissa P. e il suo specchio

Il romanzo di Panarello indaga i temi (ancora tabù) del binomio donna - denaro e dell’emancipazione femminile nella cultura
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29 febbraio 2024 Aggiornato alle 06:30

Quando una donna ottiene molto denaro avendo utilizzato il suo corpo, la sua sessualità, come leva per trarne un’opera d’arte (un libro, un film) diventa il bersaglio preferito di tutta la rabbia che il sistema riversa sul femminile e di tutta la paura che essa possa emanciparsi e prendere potere.

L’ambientazione del libro di Melissa Panarello, Storia dei miei soldi, è una Roma del cinema, di feste e di produttori, di agenti e di aspiranti e qui, un’attrice che compiace il male gaze mostrando il proprio corpo, diretta da registi maschi, per il piacere di spettatori maschi, va bene finché non diventa, di là dallo schermo, e cioè nella vita, una persona che dispone del proprio corpo e del proprio denaro, quindi potente, perché allora va placcata.

E quale miglior modo per ridurla al controllo maschile se non l’utilizzo degli strumenti che il sistema patriarcale ha forgiato all’uopo come l’umiliazione, la denigrazione, o più tecnicamente l’applicazione pedissequa del doppio standard? Gli uomini che usano corpi di donne per produrre denaro, sono grandi artisti, maestri, o nel peggiore dei casi dei fascinosi tombeur de femmes, ma una donna che lo fa è una persona da umiliare e prima possibile sostituire (come si farebbe con un pezzo di ricambio e non con una persona, a indicare dunque che una donna, del tutto persona, non è).

È interessante che sulla copertina del libro ci sia uno specchio, perché ne è anche una chiave di lettura. Il romanzo è una storia di rispecchiamento tra l’autrice, che narra in prima persona, e l’attrice che ha interpretato il film tratto dal suo secondo libro. La scrittrice incontra di nuovo dopo molti anni, per caso, questa attrice che era stata il suo alter ego nel film e che nel frattempo ha subito delle trasformazioni (lo scrivo evitando spoiler, sono cose che si apprendono nelle primissime pagine), non in meglio, diciamo così. Dal fulgore del successo sembra retrocessa, avvizzita a depotenziata, ridotta a una qualche strana forma di povertà.

Si instaura un dialogo per cui l’ex attrice racconta di sé a Melissa, che registra tutto per poi mettere su carta questa folgorante narrazione. Folgorante perché corre spedita, si impone nei ritmi e nei temi e non permette interlocuzione. È quello che l’autrice dichiara, ma è anche quello che succede alla lettrice o al lettore. Sei nel flusso, gli eventi si susseguono, così come le case, i luoghi, le persone e le azioni.

Clara T. (questo è il nome che Panarello dà al personaggio dell’attrice, risonante con Melissa P.) si muove in uno scenario quasi etologico. Lei, come gli altri personaggi, fa cose in un’attonita inconsapevolezza, vive come in uno stadio precedente alla coscienza, quando ancora non si analizza quello che si fa, non si pondera, non se ne leggono le motivazioni psicologiche o le spinte emotive, ma si seguono, e basta. Questo modo di stare al mondo, o questo modo di raccontare lo stare al mondo degli umani (che ha anche a che fare con la fase giovanile dell’esistenza), è estremamente liberatorio, leggero.

Clara T. aggiunge consapevolezza al suo racconto nella seconda parte, in cui attribuisce dei nomi ai meccanismi psicologici che la governano, li riconosce e tuttavia sembra incapace di riscattarsi. Vede la rete ma ci cade lo stesso, essendo il suo dolore, come i nostri, ingovernabile dalla sola ratio.

Questa visione degli umani che sembrano mettere in campo comportamenti bizzarri o eccentrici e sono invece solo intrappolati nelle loro personali dannazioni (o nevrosi) mi ha fatto pensare a Natalia Ginzburg perché, seppure in altri ambienti e con uno stile diverso, anche nel suo caso i personaggi agiscono nell’inconsapevolezza e sono descritti con una spietatezza vivida e quasi noncurante che li rende leggeri, anche nei loro drammi.

Clara T. è così. Leggera, come personaggio, come narratrice e narrata, come sequenza di parole, frasi, periodi. Scorre come l’acqua. Resta stesa sul divano, guarda la finestra, aspetta per giorni, proprio come accadeva nel ‘900, in una dimensione quotidiana che sembra perduta. La noia, l’attesa, fissare il soffitto, guardare fuori dalle finestre, scendere a comprare una cosa, sembrano preistoria da quando siamo costantemente attaccati ai device. Viaggia per il mondo, riempie il bagno di pappagalli, spenna fagiani e piccioni, organizza feste in casa sua per poi lasciare tutti lì e andare a letto presto. Il libro si legge d’un fiato, come d’un fiato sembrano accadere le alterne vicende di Clara T., l’improvvisa ricchezza e la precipitosa povertà.

Una volta un compositore mi disse che bisogna lasciare una parte di lavoro (la maggior parte, nel suo caso) all’ascoltatore. Era un bel concetto ma alla fine, forse, serviva a giustificare una difficoltà a lasciarsi andare, all’accontentare anche la parte emotiva, sentimentale, corporale che c’è nella musica. Alla fine, forse, la sua musica nasceva e restava nel cervello e per questo parlava solo al cervello.

Sarà per via di una mia pigrizia mentale ma preferisco, quando posso, ed è questo il caso, correre coi personaggi e non interrogarmi, se non in un secondo momento, su come sia montato il libro, su quali siano le scelte sintattiche, su come siano costruite le storie. Mi succede quando la prosa obbedisce a quella stessa esigenza di corsa, interiore, che non significa velocità, significa piuttosto danza.

Credo che la leggerezza, in letteratura, consista in questo, nel sottrarre peso alle tragedie senza sminuirne la portata tragica e la tragedia, qui, come quasi sempre nelle nostre vite, si consuma fra gli affetti principali: il padre, la madre, il fratello, poi i due fidanzati e il figlio. Tutto il resto è sfondo funzionale, illusionismo percettivo e scorre via come il paesaggio dal finestrino del treno.

Quando restiamo soli con i nostri estratti conto, le cartelle di Equitalia, i bonifici in entrata e i mutui da pagare siamo tutti, come Clara T., nella metafora dei nostri dare e avere sentimentali e quello che ci salva non è tanto il denaro che abbiamo o non abbiamo ma l’equilibro interiore che ci permette di gestirlo.

Per questo è sempre interessante la storia dei nostri soldi.

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