Diritti

La Perla: storia di resistenza e lotta femminile

Le lavoratrici della storica azienda di lingerie bolognese continuano a protestare contro la chiusura del marchio: le loro voci sono arrivate fino al Parlamento Ue. Ma non basta a salvare l’impresa
Tempo di lettura 6 min lettura
8 aprile 2024 Aggiornato alle 09:00

“La Perla mia, La Perla in fior, tu sei la vita, tu sei l’amor”. Le parole di questa canzone, riadattata dalle lavoratrici de La Perla, risuonano nella storica sede dell’azienda in via Mattei a Bologna e le accompagnano in ogni protesta che, da anni, stanno portando avanti.

«Come è possibile rimanere in silenzio mentre un’azienda che ha tutte le caratteristiche per svilupparsi viene chiusa?». Stefania Pisani, segretaria generale Filctem-Cgil, pronuncia queste parole con un tono tanto deciso da far trasparire un po’ di amarezza. Da anni al fianco delle lavoratrici di La Perla, storica azienda di lingerie di lusso bolognese, si è sempre battuta contro la chiusura del marchio.

Una lotta che, a gennaio, è arrivata fino a Bruxelles. In presidio davanti al Parlamento europeo, più di 40 i rappresentanti dell’azienda, tra dipendenti e rappresentanti sindacali, si sono riuniti indossando una t-shirt rossa con su scritto “La Perla. Storia Presente Futuro”.

Nella Capitale Belga le dipendenti e i loro rappresentanti sindacali sono state ricevute al Parlamento europeo per discutere della vertenza che riguarda il fallimento del brand e delle sue implicazioni internazionali. Il dito è puntato contro Tennor, il fondo olandese gestito dal finanziere tedesco Lars Windhorst, che dal 2018 possiede l’azienda. L’accusa principale portata avanti da queste lavoratrici è quella di finanza speculativa che, come ricorda Pisani «riguarda tutte le altre aziende alle prese con una situazione analoga a quella de La Perla, acquistate da fondi internazionali che promettono finanziamenti che non si realizzano e che sfuggono dal confronto con le istituzioni».

Sembra, infatti, che il fondo olandese stia cercando di mettere la parola fine alla storia del brand bolognese. Anche l’ultimo store di La Perla, in via Bocca di Leone a Roma, è stato chiuso a dicembre, ma questa battaglia declinata al femminile non si fermerà facilmente.

«Nella sede de La Perla di Bologna siamo circa 300 dipendenti e non riceviamo lo stipendio da ottobre - racconta Stefania Prestopino, grafica digitale del brand - Se la nostra azienda finisse nelle mani giuste avrebbe tantissimo da offrire in termini di ricchezza e di lavoro. In questo momento stanno distruggendo un’azienda storica, un patrimonio che non è riproducibile perché per imparare un certo tipo di lavorazioni ci vogliono degli anni».

Fondata a Bologna dalla stilista Ada Masotti nel 1954, La Perla non tarda a diventare una delle più importanti aziende di lusso italiane, contando da sempre sulla maestria tessile delle proprie sarte che realizzavano una preziosa corsetteria di sete e tessuti lavorati a mano. Alla morte della fondatrice l’azienda passa nelle mani del figlio, Alberto Masotti, che, come racconta Prestopino, «aveva istituito una vera e propria scuola al suo interno, in cui le ragazze imparavano le lavorazioni tessili, generando un ricambio generazionale».

Masotti porta avanti il marchio fino al 2008, quando la crisi finanziaria colpisce il Paese, e lui decide di vendere La Perla al fondo americano Jh Partners, che dopo vari tentativi di rilancio, ha ceduto la società a sua volta nel 2013. L’acquisto da parte dall’imprenditore Silvio Scaglia sembra inizialmente poter sancire il rilancio dell’azienda, ma dopo pochi anni, nel 2018, a seguito dell’ennesimo fallimento finanziario, La Perla viene rimessa sul mercato e acquistata dalla società olandese Sapinda Holding (oggi Tennor), di proprietà dell’investitore tedesco Lars Windhorst.

L’azienda si è trovata vittima dello stesso destino di molti altri brand di lusso italiani, inizialmente caratterizzati dall’unicità artigianale locale che non viene compresa dai grandi investitori esteri che li acquistano e li ripropongono sul mercato globale.

Oggi le lavoratrici del marchio non ricevono la retribuzione da mesi, anche dopo le promesse di Tennor, che a giugno, durante il primo incontro ufficiale con la Regione Emilia-Romagna, aveva assicurato un finanziamento da 70 milioni di euro mai arrivato. A settembre l’annuncio ufficiale della liquidazione dell’azienda, in occasione della seduta con il Ministero del Made in Italy.

«Sin dall’acquisizione Tennor non ha mai adottato una politica di finanziamento chiara né un piano industriale solido - commenta Pisani - Il motivo per cui da mesi protestiamo è chiedere alla politica che svolga il suo ruolo di tutela delle aziende manifatturiere e di controllo sulla finanza speculativa».

La vicenda dello storico marchio di lingerie va avanti a piccoli passi, ma rimane molto complessa, perché si svolge su due binari paralleli: da una parte La Perla Management Uk Srl, proprietaria del marchio, e dall’altra La Perla Manufactoring Srl, dove effettivamente si svolge il lavoro di manodopera per la realizzazione dei capi di lingerie di lusso. Dopo l’annuncio di fallimento è arrivata anche la dichiarazione di liquidazione a gennaio da parte del fondo olandese Tennor. Il futuro de La Perla è, allora, tornato a Bologna, con l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale da parte del Tribunale per La Perla Management Uk Srl, proprietaria del marchio, così da impedire il fallimento. L’azienda con sede a Londra era già posta sotto sequestro da inizio gennaio, per timore che potesse vendere il marchio senza la manodopera italiana.

Nel frattempo, rimanevano sempre più incerte le sorti de La Perla Manufactoring Srl, che soltanto il primo febbraio ha ricevuto la dichiarazione di “stato di insolvenza” dal Tribunale di Bologna.

Una storia di resistenza femminile, nata in un’azienda composta al 90% da donne, che fin dal principio è stata caratterizzata da modi e pratiche nuove per reinventarsi e resistere.

Dal prodotto reinventato in mancanza di alcuni elementi per rimanere sul mercato, alla creazione di nuovi modi creativi per opporre resistenza alla chiusura. Così in questi mesi è nata la produzione di reggiseni senza ferretti (perché l’azienda non aveva i soldi per acquistarli), mentre è stato realizzato un canzoniere che raccogliesse i canti portati in strada dalle lavoratrici durante le proteste.

Una lotta che assume i caratteri delle lavoratrici che l’hanno creata. Una battaglia rumorosa, sonora, artistica e testarda, di donne che nel loro lavoro hanno sempre avuto a che fare con il bello e l’arte e hanno riportato questi due elementi in strada.

Leggi anche
Imprese
di Raffaella Tallarico 7 min lettura
Parità di genere
di Claudia Gioacchini 3 min lettura