La Perla: a rischio un patrimonio made in Italy al femminile

Ritardi nel pagamento dello stipendio, nessun piano di rilancio, ma nemmeno procedure di licenziamento o di fallimento in vista. Quella dell’azienda La Perla sarebbe una crisi silenziosa, se a fare rumore non fossero le lavoratrici dello stabilimento di Bologna, in presidio dal 13 settembre contro il preoccupante rallentamento della produzione e l’assenza di investimenti per proseguire l’attività.
La storica azienda di lingerie, fondata dalla sarta bolognese Ada Masotti nel 1954, ha contribuito a costruire la fortuna del made in Italy nel mondo. Dal 2018 è in mano al fondo Tennor, una holding con varie sedi in Europa di proprietà del finanziere tedesco Lars Windhorst. Sono 324 le persone oggi impiegate a Bologna, per la maggior parte donne.
Si tratta di abilità artigiane che rischiano di scomparire, a causa delle manovre di speculazione finanziaria della proprietà, sostiene Stefania Pisani, segretaria generale Filctem-Cgil Bologna, che segue attivamente la vertenza. La Svolta l’ha intervistata per fare il quadro della situazione.
La Perla ha un patrimonio di maestranze al femminile; in cosa consiste e perché è in pericolo?
È una delle poche aziende che fa corsetteria di lusso con abilità che hanno mantenuto caratteristiche artigianali. In La Perla lavorano donne le cui capacità si sono strutturate in 30 anni di attività manifatturiera. Per capirci, impiegano dei pizzi del ‘700 che vengono ricamati – e non semplicemente cuciti – sui tessuti. Parliamo di alti livelli di competenza e qualità del prodotto finale. E infatti uno dei problemi posti proprio dalle lavoratrici, nel corso di questa vertenza, è il non riuscire ad accettare il fatto che questa ricchezza artigiana si disperda; molte di loro andranno in pensione e, mentre l’azienda parla di “svecchiare” la produzione, queste competenze non sono state trasferite alle nuove generazioni.
Le lavoratrici hanno protestato con un presidio e non con un blocco dell’attività. Come mai?
Noi e le donne che lavorano nell’azienda stiamo denunciando che la produzione è ai minimi storici. Per questo motivo, non hanno fatto le tipiche operazioni di sciopero che bloccano l’attività: un atto di coerenza politica ammirevole. Per 5 settimane hanno messo in atto dei presidi in pausa pranzo, una lotta abbastanza stancante per tenere in piedi un minimo di produzione, ma incredibile e diversa da quelle a cui siamo abituati. Niente di muscolare, solo caparbietà, ironia e capacità artistica.
Ci dà qualche numero di questa crisi?
Da quando il fondo Tennor ha rilevato l’azienda a oggi, le maestranze si sono dimezzate, per la maggior parte nell’ambito della produzione, ma anche della vendita al dettaglio. A livello globale registriamo una contrazione dei negozi del 70%, e sto arrotondando per difetto. Nelle ultime settimane stiamo perdendo anche il mercato statunitense – non proprio marginale in termini di fatturato – con una progressiva chiusura dei negozi. In Italia, la contrazione arriva all’85%, con l’aggravante che la nostra rete di vendita aveva un valore aggiunto per i turisti, che potevano acquistare un prodotto made in Italy direttamente nel nostro Paese. Contrariamente da quanto dichiarato da Lars Windhorst (imprenditore, ndr) in un’intervista, questa contrazione non è avvenuta perché i negozi erano poco profittevoli, ma perché non venivano pagati i canoni di locazione.
Quali mosse della proprietà hanno portato a questa situazione?
Non sono le professionalità a mancare, e non si tratta di una crisi di mercato, perché la richiesta di prodotti La Perla c’è. Al tavolo promosso dalla Regione Windhorst, in collegamento da remoto, aveva promesso un finanziamento all’azienda tra i 60 e i 70 milioni di euro entro giugno. Queste risorse erano necessarie per ridare slancio allo stabilimento bolognese, che è il cuore dell’azienda: campionario e prototipia dei capi e produzione della manifattura avvengono su Bologna. Ma questi soldi non sono mai arrivati. In più, quest’estate lo stipendio di luglio non è arrivato e quello di agosto è stato pagato a settembre; guarda caso, il giorno prima del tavolo convocato al Ministero del made in Italy. Il 5 settembre, Windhorst ha partecipato sempre in collegamento, e il Mimit gli ha chiesto di presentare entro il 15 ottobre un piano di rilancio e di sviluppo dell’azienda, che però non è mai arrivato.
Recentemente ha parlato di una speculazione finanziaria in atto da parte della proprietà.
Il bilancio per il 2022 di La Perla holding – che è una società quotata in borsa – è stato chiuso con un passivo di 49 milioni di euro. Queste perdite sono state pagate dal fondo senza accedere al credito bancario, il che vuol dire che i soldi ci sono, ma non vengono immessi nel processo produttivo. Il nostro sospetto è che si voglia sfruttare la reputazione del marchio per mettere in atto un giochino finanziario, replicabile all’infinito su altre aziende. Si fanno aumenti di capitale e si chiede di comprare le azioni dell’azienda, ma chi decide di investire sta compiendo un’attività ad alto rischio, perché non sa se riuscirà mai a riavere indietro quanto versato, visto che la produzione è ai minimi termini. Secondo me, il problema non è circoscritto ai cancelli di La Perla, ma è emblematico di una finanza speculativa che sta erodendo l’economia reale.
Lunedì scorso c’è stato un nuovo tavolo al Ministero del made in Italy. Cosa è emerso?
Windhorst non si è presentato, e si sono collegati 3 consulenti, tra l’altro senza un regolare mandato. Hanno chiesto di prorogare la presentazione del piano di altri 4 mesi. La richiesta è sintomo di scarsa competenza nel settore, perché una dilazione del genere mette a rischio non solo la collezione primavera-estate, ma anche quella autunno-inverno del 2024. In sostanza significa non andare in produzione, nell’anno, tra l’altro, in cui ricorre il 70° anniversario dalla nascita di La Perla. Inoltre, abbiamo chiesto al Ministero di svolgere delle verifiche ispettive per controllare che i versamenti di quanto trattenuto nella busta paga delle lavoratrici e dei lavoratori siano stati effettivamente trasferiti all’erario. Una richiesta necessaria, dopo che abbiamo saputo che l’Alta Corte di Londra ha chiesto il fallimento di La Perla manufacturing London per debiti erariali.
Quali sono i prossimi passi della lotta sindacale?
Dato che il fondo Tennor non viene da noi, noi andremo dal fondo Tennor, alla sede londinese. Martedì, in assemblea, abbiamo deciso di metterci insieme e, visto che la finanza speculativa non ha confini territoriali, ci allarghiamo all’Europa coinvolgendo i lavoratori e il sindacato degli stabilimenti in Portogallo e a Londra. Stiamo mettendo insieme le idee per capire come mobilitarci.
Come stanno rispondendo le istituzioni a questa vertenza?
Il Ministero è intenzionato a trovare delle soluzioni che consentano di mantenere la produzione e le maestranze “con o senza l’attuale proprietà”, ci ha assicurato la sottosegretaria Fausta Bergamotto. Quindi delle due l’una: o Windhorst rimette in attività La Perla, o si trova il modo di far mettere in produzione e in sviluppo questa azienda da qualcun altro.
La crisi di La Perla dice qualcosa sullo stato di salute del settore manifatturiero in Italia?
Da 20 anni assistiamo a una riduzione dell’occupazione nelle lavorazioni artigianali e nell’industria, dove però il lavoro è più stabile, meglio retribuito e contrattualmente più assistito, perché in questi settori c’è una tutela sindacale che è storica. I “nuovi” lavori sono tutti nel mondo dei servizi che, però, per propria natura sono instabili e anche sindacalmente più giovani. Siamo arrivati al paradosso che, nei settori dove l’offerta di lavoro è maggiore, trovi il peggior precariato e redditi più bassi. In un sistema in cui il costo della vita è alto, specie nelle grandi città, avere una situazione di scarsa capacità di reddito da lavoro equivale a dire che le città se le possono godere esclusivamente le persone che vivono di rendita.
Cosa fare per tutelare il lavoro in un settore così storico?
Ad oggi non c’è una legislazione che metta al riparo le aziende del made in Italy e di eccellenza come La Perla da chi vuole, nei fatti, sfruttare il marchio per poi lasciare il disastro intorno. La vertenza solleva soprattutto questo problema, sperando che la politica se ne occupi.
Lei è ottimista su come andrà a finire questa vicenda?
Stiamo cercando di fare il possibile per evitare la catastrofe. La strada è stretta e in salita, perché Windhorst non vuole né vendere e né tantomeno rilanciare l’azienda, ma la proprietà ce l’ha lui, quindi ci sentiamo sotto scacco. La Perla dovrebbe essere gestita da persone che sanno individuarne il potenziale; abbiamo bisogno di un imprenditore, non di un finanziere. Ovviamente non molliamo, e porteremo la vertenza in Europa con la mobilitazione a Londra.