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Andrea Pinna: «Le medicine ti salvano: questo è lo stigma più grande da superare»

L’autore e content creator ha parlato a La Svolta del suo nuovo libro, Il mio lato B(Polare): dalla diagnosi fino ai periodi di Up e Down. E di quanto le malattie psichiatriche rappresentino (ancora) un argomento tabù
Andrea Pinna
Andrea Pinna
Tempo di lettura 11 min lettura
22 novembre 2023 Aggiornato alle 11:15

“Influencer dal 2010 e Soubrette dal 1986”: così recita la biografia Instagram di Andrea Pinna, 37 anni, content creator, ideatore della pagina Le Perle di Pinna e vincitore di Pechino Express 2016.

Ma è proprio lì, all’apice della sua carriera, che si trova a fare i conti con l’inaspettato: il suo bipolarismo. Dopo un periodo di assenza dai social decide di mettere nero su bianco ciò che ha passato. Lo fa per lui e per gli altri, in un racconto accurato e catartico di 147 pagine, di quella che è la sua storia, certo. Ma che è anche la storia di molti altri. E soprattutto di un’Italia in cui ancora troppo spesso, di fronte a problematiche legate alla salute mentale, ci si trova abbandonati.

Intervistato da La Svolta, ha parlato del suo libro Il mio Lato B(polare) (Harper Collins Editore, 17 euro, 147 pagine), uscito nelle librerie lo scorso 13 ottobre e adesso già in ristampa. Ha parlato di ciò che ha passato, di come ha scoperto e affrontato la diagnosi; delle difficoltà, di cosa significa realmente avere una malattia mentale e di come si cura. E l’ha fatto partendo dalla fine, forse dalla domanda più complessa…

Come sta ora?

Adesso molto meglio, direi bene.

Cosa significa stare bene?

Diciamo che oggi ho una vita abbastanza normale. A livello di salute va molto meglio e, rispetto a qualche anno fa, direi alla grande. Il bipolarismo comunque è una malattia cronica, questo significa che è necessario conviverci e curarsi in modo continuo. Io sto imparando. Ci sono dinamiche a cui bisogna fare attenzione, per esempio i cambi di stagione, un volo intercontinentale o i periodi di forte stress, siamo comunque soggetti più fragili. La differenza è che ora riesco a capire quando si sta avvicinando il momento di difficoltà, riesco ad anticiparlo, prepararmi e controllarlo molto di più. Per esempio, qualche giorno fa in Sardegna è cambiato improvvisamente il clima e io ho dormito tutto il giorno.

Secondo lei, in Italia le malattie mentali quanto sono considerate vere malattie e che percezione c’è a livello sociale?

Io credo che nel nostro Paese ci sia molta ignoranza a riguardo, dove ignoranza significa non essere a conoscenza di cosa effettivamente siano i disturbi psichiatrici, né di come si curino. Sono considerati agghiaccianti. A differenza di una persona cardiopatica che non fa paura, una che convive con una malattia mentale sì. Terrorizza sia la malattia che la persona e credo che sia dovuto al fatto che non se ne parla, se ne sta semplicemente alla larga. Molti non si rendono conto che le malattie psichiatriche sono psicofisiche: un problema alla testa può far venire fame, freddo o sonno; è riduttivo pensare che sia circoscritto al cervello. Per non parlare del pensiero comune che le medicine siano droghe legalizzate, mentre invece sono l’unica cosa che ti può salvare. Questo è lo stigma più grande. Per quanto riguarda il bipolarismo, poi, la maggior parte della società è convinta che chi ne è affetto sia instabile e cambi idea ogni 5 minuti, ma quello non c’entra niente. Quelli sono disturbi della personalità, non dell’umore.

E cos’è il bipolarismo?

Nello specifico è un disturbo dell’umore soggettivo, è genetica. Tendenzialmente consiste nell’alternarsi di periodi di euforia immotivata ad altri di profonda depressione, gli Up e i Down. Durante l’Up ti senti invincibile, dormi 2 ore a notte, fai azioni impulsive: stipuli mutui, chiedi prestiti, fai gli stessi acquisti anche più volte, organizzi viaggi che non puoi permetterti. Sei nella versione esaltata di te. Quando arriva il Down poi ripaghi tutto quello che hai fatto nel periodo precedente. Sono correlati: più forte è l’Up più lo sarà il Down. Sono il fuoco e la cenere, così stai male in entrambi i casi. Io, per esempio, le ore che non dormivo in Up le recuperavo in Down, questo mi ha portato a rimanere a letto anche 4 mesi.

Come ha capito di stare male e come sono iniziati i sintomi?

Diciamo che non è mai una corsa da 0 a 100, è stato un crescendo. Inizialmente ho avuto qualche attacco d’ansia che si è trasformato in attacco di panico, così sono andato da uno psicoterapeuta che a sua volta mi ha indirizzato dallo psichiatra. In termine specialistico, il mio bipolarismo si stava slatentizzando pian piano, stava venendo fuori. Ci sono voluti 3 anni per ricevere la diagnosi: prima mi hanno detto di avere una forma ciclotimica (la più lieve) per poi scoprire di avere il Tipo 1, il più grave. Oggi infatti lo vedo dalle analisi del sangue, ma all’inizio no. E i medici se non ne sono certi al 100% non te lo dicono. Anche perché il bipolarismo è la malattia psichiatrica con il più alto tasso di suicidio e quindi non sanno come potresti reagire.

Quando sono comparsi i sintomi era all’apice della sua carriera. Sincerità e genuinità con i suoi follower l’hanno sempre distinta. Con loro ha affrontato l’argomento?

Allora, inizialmente no, ma solo perché non sapevo nemmeno io i dettagli precisi. Poi sì, e devo dire che la maggior parte è stata molto gentile. Naturalmente c’è stato anche chi non ci ha creduto, d’altronde può apparire strano che il momento peggiore della propria vita coincida con il più bello. Ma è normale, sempre per il motivo di prima: molte persone non sanno cosa sia questa malattia, sono convinte che per essere depressi ci debba essere un trauma, un motivo. Quella è un’altra cosa, non è bipolarismo. Pensi che il giorno in cui ho detto nelle stories di essere bipolare, la mattina seguente i giornali avevano riportato la notizia. In quel momento mi sono davvero reso conto di quanto fossimo indietro e ancorati ai tabù riguardo le malattie psichiatriche.

E cosa l’ha spinta a scriverne un libro anziché raccontarlo sui social come aveva già fatto in passato?

Il fatto che la mia malattia avesse fatto notizia mi ha fatto capire che c’è davvero troppo silenzio sul tema. Raccontarlo nelle stories sarebbe diventato difficile e confusionario, un argomento troppo elaborato per essere racchiuso in qualche rubrica. Volevo fare un quadro dalla A alla Z che parlasse di tutto, dalla mia predisposizione al bipolarismo fin da bambino, fino ai tentativi di suicidio. E poi l’ho scritto anche per me, per ricordarmi ciò che ho passato.

Il libro inizia con un evento traumatico, una rapina in casa in cui ha rischiato la vita e alla quale ha reagito in modo particolare, quasi in una sorta di trance. Anche quello era un sintomo?

Diciamo una conseguenza. Stavo davvero male, uscivamo dal primo lockdown e io avevo trascorso la pandemia nel peggiore dei modi. Stavo vivendo un periodo talmente angusto che quando ho visto la possibilità di andarmene ho pensato «forse è l’universo che mi ascolta». Non ero lucido. Il punto però è che poi la lucidità torna e quando sono riuscito a liberarmi, loro sono fuggiti senza prendere niente. Lì è iniziato il momento peggiore: per mesi ho avuto il terrore di una vendetta, spesso gli attacchi psicotici erano su quello.

Di attacchi psicotici ne parla molto nel libro, ne racconta alcuni terribili e altri invece più leggeri, che cosa sono?

Sono comportamenti che iniziano come ipomaniacali, non emergono immediatamente al 100%: a volte vedi ombre, ti ritrovi a mettere a posto oggetti perché hai la convinzione che qualcuno li abbia spostati. È un crescendo e diventano psicotici quando ti distaccano dalla realtà al punto da farti credere di sognare. Per fare un esempio, sogni di fare un aperitivo con un’amica, tu in quel momento inizi a farlo davvero convinto che stia accadendo, ma la tua amica non c’è. I più sono terribili, veri e propri incubi che diventano pericolosi, il cervello ha un potere incredibile. Però ce ne sono stati anche di meno pesanti che ho inserito nel libro appositamente: come quella volta che il salotto di casa mia è diventato un Vanity Fair “post Oscar”, ho perfino preparato il caffè a Gina Lollobrigida e ordinato vino per tutti i divi di hollywood. Peccato che quando mi sono svegliato l’unico bicchiere vuoto fosse il mio.

I suoi follower si ricordano del suo cane, Erode, nel libro lo accenna soltanto, proprio in riferimento alla malattia, con la frase: «E poi ti ritrovi in una casa di 200mq e un Dobermann». La scelta di adottarlo, è stata anche quella un atto impulsivo?

Assolutamente no: Erode è stata una scelta consapevole a seguito della rapina. Come ho detto ero terrorizzato e ho sentito di voler avere un cane al mio fianco che facesse anche la guardia. Gli voglio un bene incredibile. Il fatto è che l’allevatore me l’ha lasciato troppo presto e in quel periodo gli addestratori erano chiusi a causa delle regole di emergenza Covid, quindi non ho trovato appoggi. Così, fra il mio equilibrio vacillante e il suo carattere vivace è cresciuto, diciamo senza regole. Ha creato un bellissimo rapporto con la mia domestica Scichi e oggi è semplicemente un cane felice, circondato dall’amore della sua famiglia: Scichi, mia sorella e me.

A proposito della Pandemia, come l’ha vissuta?

Malissimo, pensi che mi sono reso conto del Covid soltanto di fronte alle immagini delle bare di Bergamo in tv. Quando stai molto male pensi solo al tuo di male, non puoi pensare che anche il mondo possa soffrire. Stavo in casa perché queste erano le regole, ma non realizzavo. Quando è successo è stato terribile. Sentivo ambulanze in continuazione e non c’era nessuno che mi tranquillizzasse: sa finché si può avere conferma da qualcuno della propria visione è un conto, ma altrimenti cresce, non si ferma. Videochiamavo i miei amici per sapere se ci fosse qualcuno in casa: io vedevo le giacche nel mio armadio piene.

In quel periodo, un evento l’ha segnata più di altri: un meme pubblicato per sbaglio su instagram…

Sì, giugno 2020. Quello mi ha fatto crollare definitivamente. Stavo male, non ci si poteva ancora muovere e io ero d’accordo con la mia famiglia che per tranquillizzarla avrei pubblicato sui social ogni tanto. Per far sapere che ero vivo. Succede però che gli attacchi psicotici ti possano togliere parte della vista. Quella mattina mi accorgo di non aver ancora pubblicato niente, così sblocco il telefono e senza vedere bene, convinto che si trattasse di una battuta innocente, pubblico un meme. Dopo poco il telefono inizia a squillare tantissimo e una mia amica mi fa notare la realtà: sulla mia pagina compariva un meme razzista, nei confronti di George Floyd. Io non l’avevo letto. Lo levo immediatamente e porgo le mie scuse spiegando di star male. Molti dei miei follower capiscono perché, io, razzista, proprio no. Pensi che la Regione Lombardia mi ha conferito una targa per la mia battaglia contro il razzismo. Ciò che mi ha fatto crollare è stato il gesto di un mio collega e (allora) amico, perfettamente a conoscenza del mio stato. Lui in quel momento fa uno screenshot, lo ricondivide e scrive “Pinna fa finta di avere problemi mentali quando invece è soltanto un grandissimo razzista”. Lì, non ce l’ho più fatta, finché la malattia toccava la sfera personale potevo ancora provarci, ma quando ho visto anche i lavori sfumare ho pensato di farla davvero finita. Provare la verità è una delle cose più difficili che ci siano.

E cosa è successo poi?

Mi hanno aiutato tutti quelli che conoscevo, dagli amici, ai parenti, fino alla mia agenzia. Li ringrazierò per sempre perché senza di loro non ce l’avrei fatta. Ma ciò che mi ha letteralmente salvato la vita sono state le medicine e uno psichiatra che, vista l’urgenza della situazione, mi ha consigliato il ricovero in una clinica. Sono stato lì un mese e mezzo, fino ad agosto 2020. Ci tengo a sottolineare, perché neanche io lo sapevo, che le cure non attecchiscono subito, quando sono uscito non stavo ancora bene, hanno iniziato a fare effetto a febbraio 2021. A volte sono terapie d’urto necessarie e doverose. Anche questo è un tabù che dovremmo superare.

Cosa servirebbe in Italia per superarli davvero ed eliminare questo stigma?

Il lavoro è davvero lungo. Innanzitutto bisognerebbe parlarne perché le persone hanno paura di ciò che non conoscono. Sono sicuro che se facessi 10 colloqui di lavoro, almeno 5 non mi assumerebbero. Finché ci sarà silenzio rimarrà il pensiero che gli psicofarmaci siano droghe legalizzate. Io ripeto, senza non sarei qui. Non dico che non abbiano effetti collaterali, bisogna trovare le cure giuste con il medico, ma prima dal medico bisogna poterci andare. E qui subentra un altro problema. Le faccio il mio esempio: io al tempo spendevo 200€ di psicoterapia, 120€ in psichiatria e 180€ di farmaci al mese. Affidandoti alla sanità pubblica lo psichiatra lo vedi una volta ogni 4 mesi e sa quante cose può fare un malato non curato in 4 mesi? Per non parlare delle assicurazioni: anche lì, io ne ho una sia sulla vita che sulla salute e sa qual è l’unica branca non convenzionata? La psichiatria. Nel pratico poi, bisognerebbe fare screening fin da piccoli e poi, ancora, parlarne e riparlarne.

Ora è in Sardegna giusto? Tornerà a Milano? Che progetti ha?

Cerco di fare un po’ su e giù, ma sì sono in Sardegna. Come progetti mi piacerebbe molto provare a fare dei podcast. Li avevo già iniziati, ma non stavo molto bene quindi ho smesso, ora vorrei riprovare. Non so ancora se su questo argomento oppure ricominciare i miei classici Wikipinna su temi storici, un po’ più soft. Non credo che tornerò a raccontare le mie giornate come un tempo, anche perché sono cambiate: prima viaggiavo molto, vivevo con Tont (un suo amico, ndr), ero più giovane. E poi, secondo una statistica nel 2018 eravamo 5.000 influencer totali, oggi 1 milione. Una concorrenza più spietata e meno cose da raccontare? Spero davvero di realizzare i podcast.

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