Storie

Randa Ghazy: «La rivoluzione non consiste solo in grandi momenti»

«Ma nell’insieme dei cambiamenti graduali che si riescono a imporre», ha raccontato la giornalista e scrittrice di origini egiziane, intervistata da La Svolta per parlare del suo libro La mia parola è libera, storie di donne che non hanno mai smesso di combattere
Randa Ghazy, giornalista e scrittrice
Randa Ghazy, giornalista e scrittrice
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 11 min lettura
14 novembre 2023 Aggiornato alle 12:00

Doria Shafik, Shireen Abu Akleh, Georgina Rizk, Djamila Bouherid, Haifa Zangana, Tawakkol Karman. 6 donne, 6 Paesi d’origine, altrettante cause per cui combattere. Randa Ghazy, giornalista e scrittrice italo-egiziana, le ha raccolte in un libro intitolato La mia parola è libera. Storie di donne che non hanno mai smesso di lottare, pubblicato a maggio 2023 con Rizzoli.

Ne parlerà durante l’incontro Donne che combattono per la libertà previsto all’interno di scrittorincittà, la manifestazione letteraria giunta alla sua XXV edizione in programma dal 15 al 19 novembre a Cuneo. Ma anche sabato 18 novembre, in occasione di BookCity (a Milano dal 13 al 19 novembre) durante l’appuntamento Scritti dalla Città Mondo - Storie di donne e di libertà.

La Svolta ha parlato con Ghazy del suo quarto libro, del ruolo delle 6 donne raccontate, e di quanto sta accadendo a Gaza.

Parliamo del suo ultimo libro: come ha scelto le 6 protagoniste?

È venuto tutto naturalmente, perché è come se il libro fosse parte del mio percorso personale come donna araba, in cui ho spesso visto dei role model, cioè delle donne che mi hanno colpito nel corso degli anni della mia formazione, e che però non vedevo rappresentate nello stereotipo della donna araba o musulmana. Di alcune avevo già sentito parlare, ma volevo assolutamente che fossero conosciute. Come Doria Shafik, una figura nota, una suffragetta, purtroppo un po’ dimenticata in Egitto, o Djamila Bouherid, di cui non conoscevo la storia così a fondo, ma a cui mi sono appassionata durante la mia ricerca. Altre, invece, le seguivo di più: Shireen Abu Akleh, per esempio, era un volto molto familiare sull’emittente Al Jazeera, e per me che seguo le questioni attuali era già una figura conosciuta.

La scelta delle altre, invece, rientra nel tentativo chiaro di questo libro di decolonizzare un po’ sia il linguaggio che il modo in cui vengono raccontate le donne arabe, che sono sempre state attive. Per esempio, nella lotta per l’indipendenza algerina, il loro ruolo è stato messo da parte, perché ovviamente sono sempre gli uomini a riscrivere la storia. Per motivi di tempo, purtroppo, ne ho potute descrivere poche, ma sono sicura che si potrebbero realizzare molte altre serie.

Quelle che hai descritto nel suo libro sono “donne che non hanno mai smesso di combattere”, come cita il sottotitolo. Quali battaglie fondamentali hanno affrontato?

La battaglia che le unisce tutte è una battaglia di libertà, di aspirazione individuale, il voler tracciare a tutti i costi un proprio destino, un proprio percorso, senza farsi condizionare dalle pressioni esterne - quelle del mondo che non comprende, magari, il mondo arabo - né da quelle interne, delle società in cui sono cresciute e vissute. Sono, tra loro, donne molto diverse: Georgina Rizk, di Beirut, è stata una reginetta di bellezza e sembra stonare rispetto a Tawakkol Karman, che scendeva in piazza in Yemen, o Djamila Bouherid, combattente della resistenza algerina. In realtà, Rizk ha tentato di parlare di emancipazione e libertà sessuale, pagandone anche un po’ le conseguenze: dopo aver vinto Miss Universo in Florida nel 1971, durante una conferenza stampa, si espresse a favore dei rapporti sessuali prima del matrimonio. Una volta tornata in Libano, però, cercò di correggere il tiro perché molte persone erano rimaste oltraggiate dalle sue dichiarazioni: questo ci dimostra come lei, giovanissima, fosse una ragazza con le idee già molto chiare, che voleva vivere a modo suo.

Nel libro, poi, ci sono anche storie di resistenza contro il colonialismo in varie forme: quella di Shireen Abu Akleh, in Palestina e nei territori occupati da Israele, o quella di Djamila Bouherid, contro l’occupazione coloniale francese. Molte riguardano il tentativo di liberare le proprie società da queste influenze esterne.

Possiamo dire che si tratta di donne rivoluzionarie. Secondo lei in che cosa consiste una rivoluzione?

Una rivoluzione non consiste solo in grandi momenti. Quello che faccio in tutte le storie è partire da un momento chiave della loro storia, della loro vita, che utilizzo come incipit per raccontare la loro “svolta”. Però la rivoluzione, secondo me, non è quel momento, ma il percorso graduale intrapreso per cambiare qualcosa nella società. Non solo il raggiungimento simbolico di un obiettivo come il diritto di voto, per esempio, ma l’insieme dei cambiamenti graduali che si riescono a imporre nella società lavorando sulla cultura profonda.

C’è una metafora che mi piace molto che dice che la cultura è un po’ come un iceberg: quella che noi vediamo è la parte in superficie, che sarà il 10%, mentre il 90% è la cultura profonda, quella che sta sott’acqua. Una rivoluzione, secondo me, va a incidere proprio su quello, sulle strutture della cultura e della società che opprimono le donne. È per questo che è difficile combattere il patriarcato, perché incide a livello profondo sul modo in cui le società funzionano.

Il suo libro è uscito prima del 7 ottobre, ma tocca temi molto vicini a quanto sta accadendo a Gaza. In relazione a questo tema, se lei dovesse aggiungere altre donne alle 6 già citate, chi le viene in mente?

Potrei sicuramente parlare di Hanan Ashrawi, politica e attivista palestinese che è stata in prima linea durante il processo di pace degli anni ’90. Se si riguardano le immagini di archivio delle delegazioni palestinesi che incontravano a esempio Bill Clinton o altri presidenti americani, si nota che erano tutti uomini e lei era l’unica donna in queste situazioni. Penso anche ad Ahed Tamimi, che oggi ha 22 anni ed è stata arrestata pochi giorni fa nella Cisgiordania occupata. Lei, palestinese, è diventata un po’ un’icona quando, all’età di 11 anni, venne fotografata mentre si opponeva a un soldato israeliano con un pugno alzato. Oggi è imprigionata ed è l’esempio perfetto di come le donne palestinesi, all’interno del mondo arabo, siano in prima linea, si facciano sentire e abbiano un ruolo molto importante nella società.

Lei è stata a Gaza nel 2022. Qual era la condizione delle persone che vi abitavano?

Considera che ci sono andata per indagare l’impatto che 15 anni di blocco su Gaza hanno avuto sui bambini, quindi ne ho intervistati diversi, ognuno con una storia differente. Da un punto di vista psicologico, erano bambini che stavano cercando di guarire da traumi subiti e, a livello pratico, la loro vita era profondamente condizionata a livello quotidiano. Credo che sia questo quello che manca, secondo me, nella narrazione del cosiddetto “conflitto” in corso: anche quando non si verificano questi cicli di violenza, il blocco imposto da Israele condiziona comunque tutti quelli che vivono all’interno di Gaza.

Un bambino di 8 anni, per esempio, aveva raccolto un ordigno inesploso, l’anno precedente, e aveva perso 2 dita di una mano e la vista. Piangendo, il padre mi aveva raccontato che la sua vista si sarebbe potuta salvare, se solo gli avessero concesso il permesso per uscire da Gaza. Ma non è successo. Il bisogno di cure mediche è molto limitato, in tanti hanno bisogno di uscire per andare all’ospedale a Gerusalemme o nella Cisgiordania occupata, ma non possono farlo. A volte viene concesso il permesso a un bambino, ma non ai genitori, ed è impensabile che un minore con una patologia anche grave possa muoversi da solo. Un’analisi di Save The Children pubblicata a settembre 2023 mostrava come, in media, 2 bambini al giorno rimanessero senza accesso a interventi chirurgici salvavita.

Un’altra questione che mi ha colpito è che a Gaza non c’è elettricità, se non per 8 ore al giorno, cosa che condiziona anche l’acqua. L’80% della popolazione dipende dagli aiuti umanitari, quindi c’è una povertà endemica nella Striscia. Il blocco, che è anche via mare, influenza anche l’attività dei pescatori. Ci sono famiglie che non si possono vedere perché qualcuno è in Cisgiordania, altri a Gaza, e non hanno la possibilità di muoversi. Io mi sono sentita molto privilegiata a poter entrare e uscire. Nel valico di Erez, in quanto straniera, avevo la possibilità di portare con me oggetti elettronici e altro, come un trolley, che invece non è concesso a un palestinese. Secondo me, un bambino che nasce in quel tipo di condizione è molto naturale e comprensibile che cresca in maniera non funzionale, che sia un membro della società senza una speranza per il futuro.

È ancora in contatto con le persone che ha incontrato?

Purtroppo dal 7 ottobre più di un milione di persone sono evacuate, ci sono continui blackout della comunicazione e riuscire a ritrovare alcune di queste famiglie è stato impossibile. Attraverso il lavoro che svolgo per Save The Children (Ghazy ricopre il ruolo di Regional Media Manager per Save The Children MENA & Eastern Europe, ndr) so che i nostri stessi colleghi hanno perso la loro casa e si sono diretti verso il sud della Striscia: chiedergli di aiutarmi a rintracciare altre persone quando loro, in primis, sono sfollati, non è possibile.

I blackout e la mancanza di elettricità fanno sì che anche gli ospedali siano in grande difficoltà. Ci sono donne incinte, per esempio, che stanno subendo cesarei senza anestesia. Secondo lei perché un tema come quello degli aiuti umanitari fa fatica a incontrare il consenso di tutte le parti coinvolte?

Quello che mi sconvolge è che è vero che ci sono questioni politiche su cui c’è molta polarizzazione, ma dovrebbero esserci dei valori universali legati alla salvaguardia della vita umana: gli aiuti umanitari dovrebbero essere un tema non politicizzato. Purtroppo non è così, e credo che questo sia tristemente legato alla disumanizzazione dei palestinesi, che non vengono visti come persone con sogni e ambizioni, o con famiglie, ma come un blocco monolitico di storie violente per natura.

Poi c’è una questione più ampia di “orientalismo”, legata a come spesso il mondo occidentale si posiziona rispetto alle altre culture: studiosi come Edward W. Said (autore del saggio “Orientalismo”) hanno spiegato come il mondo arabo sia spesso descritto dagli occidentali come un mondo barbaro, e quindi questo ha giustificato il colonialismo e la dottrina Bush rispetto a una guerra in cui si esporta la democrazia. In questo contesto gli altri vengono ridotti a soggetti inferiori che vanno salvati, aggiustati o cambiati.

L’Egitto che ruolo sta avendo rispetto a quanto sta accadendo a Gaza e come pensa che si comporterà prossimamente?

Generalmente fa da mediatore, perché è stato il primo Paese arabo a stringere un accordo di pace con Israele, è sempre stato un suo interlocutore, dagli anni ‘70 in poi. È un Paese che ha dei rapporti con Israele ma, a livello ideologico, è vicino alla causa palestinese. Per ora sta mediando insieme al Qatar affinché vengano liberati gli ostaggi israeliani in mano ad Hamas. Il Presidente Al-Sisi ha incentrato il suo regime militare sulla sicurezza e sul fatto che, rispetto ai Paesi della regione che dopo le Primavere arabe sono, come dire, collassati (come la Siria con la guerra civile), l’Egitto sia un Paese che ha mantenuto la propria stabilità. È una narrativa per cui l’esercito protegge il popolo dalle influenze esterne e da questi rischi di destabilizzazione.

Se davvero Israele riuscisse a portare i soldati palestinesi verso il nord del Sinai sarebbe un enorme problema di sicurezza per l’Egitto, che non credo lascerà mai che questo accada: è nell’interesse egiziano che i palestinesi costretti a evacuare verso il sud tornino verso il nord della Striscia. Immaginate più di 2 milioni di persone tutte al confine con l’Egitto: diventerebbe insostenibile. Per via dei propri confini con Gaza, è inevitabile che il Paese abbia un ruolo in tutto questo. Le popolazioni del mondo arabo, però, sono in gran parte molto deluse dai loro leader, perché non pensano che stiano facendo abbastanza per i palestinesi.

Lei è nata a Saronno da genitori egiziani. Come la aiuta la conoscenza della lingua araba a intercettare le notizie che provengono da Gaza in questo periodo?

Le news oggi sono di facile accesso a tutti, sia perché si possono facilmente tradurre online e sia perché ci sono davvero molti giornali locali, come Haaretz, per esempio, che nel panorama israeliano è molto seguito. Credo, però, che la lingua araba mi aiuti a capire più a fondo il background culturale e storico. Sui social media ci sono influencer, giornalisti e attivisti che parlano (in arabo) non solo di quello che gli sta accadendo, ma anche del modo in cui vedono la rappresentazione del mondo occidentale di quello che avviene. Capire quel tipo di umore mi regala un punto di vista che non avrei se mi basassi solo sulle news.

Quello che credo manchi, inoltre, è capire il punto di vista dell’altro. Nei media mainstream in Italia si sono viste tante storie: delle famiglie israeliane, degli ostaggi, di chi abitava nei kibbutz, dei ragazzi che erano al rave, dei sopravvissuti o di quelli che sono morti. Le persone hanno potuto simpatizzare, sentirsi solidali verso le vittime israeliane. Ma quante storie di palestinesi, di Gaza, stiamo sentendo? Conoscere l’arabo mi aiuta anche a non dare per scontato il linguaggio che viene veicolato dai media occidentali.

Che ruolo hanno avuto le sue origini nella sua formazione giornalistica e nella carriera di scrittrice?

Certamente hanno molto condizionato la mia consapevolezza, mi hanno dato una mentalità più analitica, perché stando a metà tra due mondi si analizza meglio quello che ci piace più o meno di uno o l’altro mondo. Ho sempre avuto un’identità ibrida, mi sono sempre sentita sia italiana che egiziana allo stesso modo, e sicuramente anche il mondo arabo è un mondo molto politicizzato. Quando si va in Palestina, per esempio, e si parla con i bambini di 8, 10, 11 anni, ci si rende conto che hanno una proprietà il linguaggio e fanno delle riflessioni molto precoci rispetto alla loro età. Questo accade in molti Paesi arabi, non solo lì: i giovani, molto presto, sviluppano una coscienza quasi politica. Insomma, tutti questi elementi sicuramente mi hanno resa più sensibile all’attualità, alle questioni geopolitiche e hanno influenzato la mia scrittura. Il mio primo libro, Sognando Palestina, era molto lirico nello stile, con una scrittura non molto tradizionale, magari non congeniale a tutti. Ma mi piace sperimentare diversi stimoli, e per questo devo ringraziare le mie origini.

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