Diritti

Bangladesh: i lavoratori tessili chiedono salari più equi

Nel Paese è in corso da giorni una violenta protesta da parte di chi realizza capi di marchi come H&M e Levi’s e lavora senza tutele e per compensi irrisori
Credit: DB production
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
3 novembre 2023 Aggiornato alle 08:00

Li troviamo sugli scaffali di scintillanti negozi e, anche se spesso fingiamo di non saperlo, il prezzo sul cartellino è più basso delle aspettative perché il conto reale è già stato saldato da altri. Con la salute o addirittura la vita.

Stiamo parlando degli abiti di marchi fast fashion ma non solo, prodotti in Paesi dove la manodopera ha costi irrisori se paragonata a quella della maggior parte delle zone di vendita dei capi, e le persone sono costrette a lavorare prive di diritti e spesso in condizioni di semi schiavitù.

Turni di lavoro massacranti e paga insufficienti contribuiscono a tenere bassi i prezzi finali dei prodotti e vive le aziende, a discapito dei lavoratori che, a volte, decidono di ribellarsi.

È quello che sta accadendo in Bangladesh, dove quelli dell’industria tessile sono scesi in strada per chiedere stipendi più alti e nello specifico un salario minimo mensile di 23.000 taka (190 euro), quasi tre volte superiore agli attuali 8.300 taka (70 euro circa).

Il Bangladesh è uno dei maggiori esportatori di abbigliamento al mondo, con un’industria tessile composta da circa 3.500 fabbriche, che rifornisce marchi occidentali come Gap, H&M, Patagonia e Levi Strauss e rappresenta l’85% dei 55 miliardi di dollari di esportazioni annuali del Paese.

Le proteste si stanno concentrando nei distretti di Gazipur, Ashulia e Hemayetpur, i centri industriali e tessili più importanti, poco distanti dalla capitale Dacca.

Partite all’inizio della scorsa settimana, sono diventate ogni giorno più aspre e hanno raggiunto il culmine lunedì 30 ottobre, con lo sciopero di decine di migliaia di lavoratori a Gazipur dove una fabbrica di sei piani è stata data alle fiamme, provocando la morte di un lavoratore.

Almeno un secondo è rimasto gravemente ferito negli scontri tra polizia e manifestanti ed è morto mentre veniva trasportato in ospedale.

Secondo i sindacati locali, salari e condizioni di lavoro sono insostenibili per gran parte dei 4 milioni di lavoratori del settore, e perfino grandi marchi come Adidas, Hugo Boss e Puma sembrano essersene accorti, al punto da scrivere una lettera alla prima ministra Sheikh Hasina lamentandosi di adeguamenti alle paghe che mancherebbero dal 2019.

Dopo i primi scontri, martedì 31 ottobre Faruque Hassan, presidente dell’Associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento del Bangladesh, ha promesso che il salario minimo sarà aumentato a partire dal mese prossimo, senza però specificare di quanto e questo non ha placato le polemiche.

Mercoledì 1 novembre migliaia di lavoratori hanno infatti eretto barricate sui viali di Dacca, e in particolare nel distretto di Mirpur.

Secondo la polizia i manifestanti sarebbero almeno 5.000 ma i sindacati parlano di un’adesione alla protesta decisamente più elevata, che avrebbe fino a oggi coinvolto almeno 100.000 persone.

Anche se al momento non si segnalano altre vittime la tensione rimane alta. 1.500 manifestanti hanno lanciato pietre contro diverse fabbriche di Gazipur e la polizia locale ha risposto con gas lacrimogeni e granate assordanti.

Inoltre, secondo il quotidiano Prothom Alo, sostenitori del partito al governo avrebbero usato armi da fuoco contro i lavoratori.

Queste proteste arrivano mentre il Bangladesh è scosso anche da violente manifestazioni antigovernative in diverse città, dove ci sarebbero già alcune vittime, che chiedono le dimissioni di Sheikh Hasina, prima delle elezioni previste per la fine di gennaio 2024.

La Prima ministra è in carica dal 2009 e c’era quindi lei alla guida della nazione quando si verificò l’episodio più drammatico della storia per i lavoratori del Bangladesh, il crollo il 24 aprile del 2013 del Rana Plaza, un palazzo di nove piani vicino a Dacca sede di un’industria tessile, che causò la morte di 1.138 lavoratori e il ferimento di più di 2.500.

Alcuni mesi prima, un centinaio rimasero vittime di un incendio in un laboratorio tessile a pochi chilometri di distanza ma nonostante lo shock iniziale dato dai due eventi e le promesse di miglioramenti da parte del governo, a oggi poco sembra essere stato fatto.

All’epoca circa 200 aziende di abbigliamento occidentali che producevano i propri capi in quell’area, tra le quali H&M, Inditex (il gruppo di Zara), Primark, Camaïeu, Prenatal, Ovs e Mango firmarono un accordo per migliorare le condizioni delle fabbriche e dei lavoratori che in Bangladesh realizzano i loro capi e anche se alcuni flebili passi avanti sono stati fatti non è ancora sufficiente, anche perché non tutte le aziende che producono nel Paese firmarono l’accordo.

Nel testo, inoltre, non si parla di salario, tema al centro delle proteste di oggi.

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