Diritti

La moda che sfrutta i lavoratori in Bangladesh

Il nuovo studio dell’Università di Aberdeen condotto su 1.000 fabbriche tessili ha rivelato che alcuni grandi marchi, tra cui H&M, Gap e Zara, sarebbero impegnati in pratiche sleali nei confronti dei produttori
Credit: Drik Gallery 
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
13 gennaio 2023 Aggiornato alle 09:00

Pagate al di sotto del costo di produzione, sfruttate, coinvolte in pratiche sleali: è questo il quadro che emerge dallo studio pubblicato dall’Università di Aberdeen, nel Regno Unito, e il gruppo di difesa Transform Trade su 1.000 fabbriche in Bangladesh che hanno prodotto indumenti per marchi e rivenditori globali durante la pandemia di Covid.

Il gruppo di ricerca composto dal professor Muhammad Azizul Islam, dalla professoressa Pamela Abbott e dalla dottoressa Shamima Haque dell’Università di Aberdeen, insieme a Fiona Gooch di Transform Trade, l’ente di beneficenza per la giustizia commerciale che lavora in collaborazione con reti di lavoratori, agricoltori e imprenditori sociali in Asia meridionale e Africa orientale, ha realizzato il sondaggio in piena pandemia, tra marzo 2020 e dicembre 2021.

La maggior parte delle fabbriche bangladesi che riforniscono 24 dei più grandi rivenditori globali di abbigliamento - tra cui H&M, Lidl, Zara, Primark - hanno segnalato pratiche commerciali sleali: per esempio, alcune aziende hanno chiesto riduzioni del prezzo dell’abbigliamento ordinato prima dello scoppio della pandemia, altre si sono rifiutate di cambiare prezzo, nonostante l’aumento dei costi delle materie prime e l’inflazione dilagante. Il 37% dei 1.138 marchi e rivenditori citati nello studio sarebbe coinvolto in queste pratiche sleali, e più della metà degli stabilimenti contattati dagli autori dello studio ha dovuto affrontare diverse problematiche nel periodo esaminato, dall’annullamento degli ordini al pagamento ritardato della merce.

Queste pratiche, spiega il rapporto, hanno comportato un abbassamento del salario dei lavoratori delle fabbriche, provocato la perdita di posti di lavoro e generato un ancora più elevato turnover del personale. Dopo il blocco di marzo e aprile 2020, circa 1 fabbrica su 5 ha rivelato di aver faticato ad assicurare il salario minimo legale del Bagladesh: il report spiega che per un lavoratore “Rmg”, che sta per “ready-made garment”, ovvero del settore dell’abbigliamento “confezionato”, ammonta a circa 80 euro al mese, sebbene le organizzazioni sindacali sostengano che sarebbe necessario alzarlo a circa 160 euro per coprire il costo della vita.

La ricerca, intitolata “L’impatto delle pratiche sleali dei rivenditori globali di abbigliamento sui fornitori bangladesi durante il Covid-19”, riporta anche le reazioni di alcuni dei rivenditori citati: Inditex, la multinazionale spagnola che racchiude 8 grandi marchi, tra cui Zara, Pull&Bear, Bershka e Massimo Dutti, ha dichiarato di aver “garantito il pagamento di tutti gli ordini già effettuati e in corso di produzione e collaborato con istituti finanziari per facilitare la fornitura di prestiti ai fornitori a condizioni favorevoli”.

La catena di supermercati tedesca Lidl si è assunta la propria responsabilità “nei confronti dei lavoratori in Bangladesh e in altri Paesi in cui i nostri fornitori producono molto seriamente” e si impegna a “garantire che gli standard sociali fondamentali siano rispettati lungo tutta la catena di approvvigionamento”.

Primark ha accusato il colpo della pandemia ed è stata dunque costretta a prendere la decisione “incredibilmente difficile”, nel marzo 2020, “di annullare tutti gli ordini che non erano ancora stati consegnati”.

Lo studio ha proposto anche qualche soluzione: la creazione di un regolatore dell’industria della moda delle nazioni importatrici, una sorta di cane da guardia per migliorare le pratiche di acquisto e frenare le pratiche sleali garantendo “che gli acquirenti/rivenditori non possano scaricare rischi sproporzionati e inappropriati sui loro fornitori e che i rivenditori e i marchi si conformino alle norme delle pratiche commerciali leali”.

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