Diritti

Re:B, la risposta alle molestie nelle agenzie pubblicitarie

Assistenza legale gratuita, un form anonimo e un gruppo Telegram dove condividere la propria esperienza: arriva il progetto collettivo per dire basta alla cultura della violenza nel mondo dell’advertising
Credit: Jon Tyson
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
4 luglio 2023 Aggiornato alle 11:00

Ormai non c’è più modo di negarlo: il re è nudo. Il mondo delle agenzie pubblicitarie (in Italia come all’estero) ha un enorme problema di molestie sessuali. Un problema che, lo abbiamo già raccontato, non è limitato a un’agenzia né a una chat (per quanto i messaggi scambiati al suo interno ci facciano giustamente rabbrividire), né ad alcune mele marce, di cui (almeno in un caso) conosciamo nomi e cognomi. È un problema sistemico.

Lo hanno dimostrato centinaia di testimonianze: luoghi diversi, colleghi diversi, storie diverse che hanno raccontato un identico ambiente lavorativo in cui sessismo, misoginia e violenze non sono eccezioni, ma ordinaria routine. Testimonianze che (è dolorosamente evidente) una parte del settore spera di spazzare via sotto al tappeto, mentre tantissime realtà hanno occupato gli spazi e le voci rivendicando che no, #notallagency, perché “la nostra è un’agenzia che bla bla bla”.

Qualche mese, la campagna Gentilissima Rivolta (di cui è tornato a parlare in questi giorni anche Massimo Guastini, il pubblicitario che con la sua intervista ha innescato la scintilla che ha dato il via al #metoo italiano) denunciava sfruttamento ed eterno precariato all’interno dell’industry creativa italiana. Dopo aver raccolto e condiviso tantissimi racconti ed esperienze, però, il progetto si è spento. Il motivo non è mai stato comunicato ufficialmente, ma non è difficile immaginarlo. Oggi si rischia di ripetere lo stesso errore.

Quel che doveva essere fatto, invece, ricorda Tania Loschi (che ha raccolto, diffuso e tutelato le testimonianze delle persone molestate) su LinkedIn, “era comprendere l’entità del problema, ammettere di essere coinvolti e mettersi a disposizione della causa. Mettersi in ascolto, mettersi in movimento”.

Qualcosa, però, è in movimento, nonostante chi vorrebbe che le donne smettessero di dire “anche a me” o di chi, invece di voler vedere quanto il sistema di cui fa parte è marcio dalle radici, preferisce ribadire la propria (presunta) purezza. Così, per rispondere “chi sperava che la questione si esaurisse in una settimana e fosse un fuoco di paglia” e alla cultura tossica in cui il settore affonda, ha spiegato Loschi in un altro post, è arrivato Re:B: “un progetto che ha come obiettivo primario la denuncia del problema: non possiamo più tollerare che qualcuno si nasconda dietro al ‘non sapevo’. Ci stiamo organizzando per supportare le persone da ogni punto di vista (psicologico, emotivo e legale) e soprattutto per dare inizio a un cambiamento che dev’essere culturale e radicale. Un cambiamento che deve coinvolgere tutto il nostro settore”.

Un cambiamento necessario proprio perché le molestie e gli abusi non sono una novità. Tutti sapevano, e nessuno ha mai fatto niente. Quello che è nuovo è che, finalmente, se ne parla. E continuare a parlarne è proprio l’obiettivo primario del progetto.

Per questo motivo, oltre a mettere a disposizione supporto legale gratuito (grazie alla collaborazione con avvocatə in caso di denuncia per molestie e abusi, che può essere richiesta scrivendo a legal@rebcollective.com), il collettivo ha creato safe space dove le persone che hanno subito violenze possano condividere la loro testimonianza. Non solo un form attraverso cui raccontare la propria esperienza, che richiede l’esplicito consenso di chi lo compila riguardo ad anonimato e alla possibilità di essere contattatǝ da eventualǝ giornalistǝ, ma anche un canale Telegram (che al momento ha poco meno di 180 iscrittǝ), “un luogo dove poter raccontare la propria esperienza trovando supporto, validazione e comunità”. E, in fondo, per trovare ciò di cui molte persone che hanno subito questo tipo di abusi hanno bisogno: la consapevolezza di non essere soli.

Ma l’ascolto e la condivisione sono anche un punto di partenza, per cambiare dalle radici quel sistema che non funziona. Attraverso 3 semplici parole (Rebellion, Rebulding, Rebooting), un post sulla pagina Instagram del progetto spiega: “Vogliamo distruggere il sistema malato per ricostruirne uno migliore. Per noi, per tuttə. Per questo dobbiamo ribellarci ai meccanismi tossici, costruire una cultura sana e riavviare la nostra industria”.

“Partiamo da queste azioni che sono la base - ha spiegato sul suo profilo la copywriter freelance Linda Codognesi - per mirare a cambiare sempre di più una mentalità patriarcale che per troppo tempo ci ha fatto sentire in pericolo nei luoghi di lavoro. Perché delle vostre survey interne alle aziende che vengono lette dagli stessi reparti HR che proteggono i molestatori non ce ne facciamo un cazzo. Perché delle scuse fatte sottovoce senza nessuna presa di coscienza collettiva ancora meno. È tempo di agire e di farlo ORA”.

“The answer will be Bold” dice il claim di Re:B. Ma questa risposta, proprio perché non vuole cedere nulla, non vuole dimenticare né scendere a patti col sistema, è già coraggiosa, audace e impenitente.

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