Diritti

Il #metoo delle agenzie pubblicitarie italiane

Da un’intervista fatta a Massimo Guastini, consulente di comunicazione, sono emerse chat, testimonianze di abusi e molestie sessuali nel mondo dell’advertising
Credit: cottonbro studio
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 9 min lettura
21 giugno 2023 Aggiornato alle 09:00

“Veniamo alla domanda personale. Io ho intuito che nel Vostro mondo, il mondo della pubblicità, attualmente ci sia un problema di molestie sessuali. È così?”.

Un’intervista, 33 domande. L’ultima, inaspettatamente, da semplice domanda in coda a un elenco diventa qualcosa di più e scoperchia un vaso di Pandora da cui escono tante, troppe, testimonianze di abusi, molestie e violenze nel mondo dell’advertising italiano, a pochi mesi dalla campagna che aveva rivelato lo sfruttamento sistemico dei lavoratori del settore.

A fare le domande è Monica Rossi, a rispondere Massimo Guastini, uno dei volti più noti della pubblicità italiana. Non è tanto la sua prima risposta “Sì, è proprio così” a incendiare la miccia, ma le affermazioni che vengono dopo. “E di uno di questi molestatori seriali conosciamo bene il nome e il cognome: Pasquale Diaferia. E la questione è tornata d’attualità recentemente visto che è stato nuovamente invitato dall’Adci (il Club dei pubblicitari, ndr) a fare il mentore, vale a dire incontrare giovani professioniste del settore pubblicitario per valutarne il talento ed eventualmente favorirne l’ingresso nel mondo del lavoro”.

Diferia è un altro nome arcinoto dell’advertising italiano, conosciuto al grande pubblico per il claim “Toglietemi tutto ma non il mio Breil”. Guastini chiarisce: “io non so se Pasquale Diaferia sia attualmente un molestatore sessuale. So per certo che lo è stato tra il 2007 e il 2016. Perché me l’hanno raccontato una dozzina di ragazze”, prima di elencare date, incontri, chat, testimonianze che anche l’intervistatrice conferma dimostrino la veridicità delle sue parole.

Dopo la bomba, l’Art Directors Club Italiano con una decisione all’unanimità ha cacciato Pasquale Diaferia dagli iscritti; ora non fa più parte né rappresenta il club. La sua storia, però, non è che la punta di un enorme iceberg fatto di sessismo e violenze che le donne devono subire in tantissime realtà. A dirlo è lo stesso Guastini nell’intervista, rispondendo a Rossi che chiede se quello di cui parla sia un caso isolato.

“No, non lo è. Potrei parlarti di una famosa chat in cui diversi uomini catalogavano e davano i voti chi al culo, chi alle tette, chi alle gambe di queste giovani stagiste che potevano essere le loro figlie”. La storia non è nuova: già nel gennaio 2020 il podcast Freegida aveva raccontato l’esistenza di questa fantomatica chat nella puntata n°5, È solo un’altra storia di molestie.

E sono proprio le parole della puntata che vengono riportate nell’intervista: “Agenzia di pubblicità molto famosa, molto potente, molto importante. Una sera a cena con due colleghi che sono divenuti anche amici, le due ragazze scoprono di una chat tra maschi e chiedono di cosa parlino. Uno dei due ragazzi mostra loro la chat. Comprende almeno 80 uomini. Quasi tutti quelli che lavorano nell’agenzia, dagli stagisti ai capi reparti. Manca solo il grande capo. Restano agghiacciate. Decine e decine di messaggi ogni giorno. Un solo argomento: quanto sono scopabili, fighe, ribaltabili o cesse le colleghe. Una chat che si svolge in ambiente di lavoro, durante l’orario di ufficio, con una sfilza infinita di messaggi espliciti, degradanti e umilianti. Si va da un capo Team che parlando di una sua sottoposta (con il suo nome e cognome) scrive: ‘glielo infilerei così tanto nel culo da farle uscire le palle dalla gola’ a un nuovo arrivato nel Team, nemmeno da due settimane, che parla così di una collega: ’è talmente cessa e grassa che le infilerei un sacchetto in testa e me la scoperei comunque, di prepotenza’. Il tutto in una chat, vale la pena ricordarlo, lavorativa in cui i membri più attivi sono i capi dei vari Team di lavoro. Arrivano a scoprire anche l’esistenza di un foglio Excel che non contiene numeri e voti ma i nomi delle proprietarie dei più bei culi femminili in azienda”.

Allora, i nomi erano rimasti nell’anonimato. Ora, si sa chi sono le persone (anzi, gli uomini) dietro agli smartphone. Si tratterebbe dei lavoratori della divisione italiana di una nota agenzia internazionale che gestisce le campagne di moltissimi brand ultra-noti, molti dei quali molto impegnati in campagne di diversity e inclusion. A confermarlo è stato Gabriele Cucinella, uno dei 3 soci, che rispondendo a un post di Guastini su Facebook ha scritto: “In realtà questo episodio, che risale al 2017 e ha riguardato un gruppo di persone della nostra agenzia, è già stato affrontato in diverse fasi (anche pubblicamente). Nel 2018 io e i miei due soci siamo stati informati in modo generico del fatto. Abbiamo subito convocato il senior team e abbiamo affrontato l’accaduto sensibilizzando tutti sull’assurdità della cosa. Ti assicuro che non si è trattato di un ‘buffetto’: la presa di posizione è stata dura e il messaggio è stato realmente percepito. Ripensando a quel momento, col senno di poi, avremmo probabilmente dovuto parlare con tutto il team. Abbiamo commesso un errore a non farlo? Probabilmente si, ma dagli errori si può ricominciare e crescere, come riteniamo di aver fatto. […] Ci sono inoltre alcuni dettagli della ricostruzione non corretti: per esempio, la chat in questione non si è svolta su “strumenti di lavoro”, e nessuno di noi tre ha mai potuto trovare la chat stessa (né l’excel citato), ma non credo sia questo il punto”. Cucinella ha inoltre rivendicato come nel 2021, dopo le proteste di due dipendenti, la questione sia stata affrontata apertamente e sia stata un’occasione di formazione e sensibilizzazione.

Enrica Mattaliano, ex dipendente, ha però risposto: “Scusa ma non stai proprio dichiarando il vero. Io sono arrivata nella vostra agenzia dopo l’episodio della chat e ancora da voi ho subito bullismo perché mi sono permessa di parlare di alcuni episodi sessisti in agenzia successi a me di persona. La vostra risposta è stata chiedermi una riunione in una stanza a vetri in cui tutta l’agenzia poteva vedere che mi stavate ‘sgridando’, con HR e il mio ai tempi Director che mi urlavano contro perché secondo loro facevo riferimento alla chat (argomento di cui non sapevo nulla, me l’hanno fatto scoprire loro durante questa riunione - furbissimi). Tre mesi dopo ho dato le dimissioni perché ho iniziato a soffrire di attacchi di panico per il velato mobbing che ho continuato a subire dopo quella riunione”.

Poco importa se i commenti avvenissero o meno in orario di ufficio (come è probabile) o su strumenti aziendali o meno (quasi sicuramente lo erano, secondo le testimonianze). Qui parliamo di una chat che, secondo le parole di un ex dipendente, intervistato sempre da Monica Rossi, era attiva da anni e a cui partecipavano “tutti i maschi” e che aveva un unico argomento “il corpo e il sesso delle nostre colleghe”.

Se l’agenzia ha molte risposte da dare, nomi da fare e responsabilità da assumersi, però, così come Diaferia non deve diventare il “mostro”, sarebbe riduttivo fare di singolo caso il capro espiatorio di un problema molto, molto più ampio. Tra l’altro, secondo alcune testimonianze, non sarebbe nemmeno l’unica realtà dell’adv ad avere una “chat dei maschietti” in cui si “commentano” le colleghe.

È una cultura sistemica, in cui le agenzie affondano le loro radici”, ha spiegato Tania Loschi, copywriter freelance, sul suo profilo Instagram, dove non ha solo denunciato le molestie subite in prima persona ma ha raccolto le testimonianze delle donne che hanno parlato per raccontare le loro. Sono centinaia. Centinaia di storie di misoginia, sessismo, molestie sessuali e violenze. Tutte diverse eppure tutte identiche, infinite repliche di uno schema fatto di sopraffazione e potere.

Una, forse, cattura meglio delle altre una delle componenti che rendono queste situazioni così problematiche e spesso impossibili da denunciare: “Ne ho pianto, per l’umiliazione ma anche per il cameratismo che aveva creato”. È proprio quel cameratismo mascherato da goliardia, che chiunque ci sia passata conosce, quel senso di impunità e di mascolinità performativa di gruppo a cui nessun maschio sembra potersi o volersi sottrarre che qualunque donna abbia subito molestie sul lavoro conosce e che nelle agenzie è così diffuso da essere quasi una componente strutturale. Luoghi in cui “il branco impone le sue regole e dinamiche”, dice Loschi nelle sue storie.

“Sono solo battute”, “non fare la permalosa”, “mica ti ha messo le mani addosso”. Tutte affermazioni fatte da chi, magari, poi investe la propria creatività ed energie in campagne contro stalking e violenza di genere, ricorda.

“E mentre il sole splende sulla Croisette, i miei DM scoppiano”, conclude. Il 19 giugno, infatti, si sono aperti i premi di Cannes per la pubblicità. Quanti dei pubblicitari che riceveranno premi e onori sono i responsabili degli atti denunciati? Quanti hanno visto, e taciuto?

Mentre già si mettono le mani avanti (come sempre accade di fronte ai #metoo di tutto il mondo) e #notallmen diventa #notallagencies, l’elenco delle testimonianze di allunga, inesorabile. Mostrando come non si tratti di Milano, di un’agenzia, di un pubblicitario: è un’intera Industry a essere marcia, non le singole mele. E non solo nel nostro Paese.

Non è la prima volta, infatti, che le donne che lavorano nel settore della pubblicità dicono “anche a me”. Nel luglio 2021 centinaia di lavoratrici dell’advertising avevano raccontato di essere state violentate, molestate e discriminate, raccogliendo l’appello lanciato sul blog Mad Man, Furious Women da Zoe Scaman, fondatrice dell’agenzia di marketing e pubblicità Bodacious. È la prima volta, però, che le donne italiane prendono la parola in massa e raccontano il lato oscuro dietro il volto “giovane e dinamico” delle agenzie. Facciamo in modo che non sia accaduto invano.

In fondo, chi aveva voluto vederlo, il volto oscuro delle agenzie già lo conosceva. A novembre, la campagna Gentilissima Rivolta aveva raccolto le testimonianze di centinaia di creative e creativi che denunciavano sfruttamento, paghe da fame, stage infiniti ma anche violenze verbali e fisiche. Se ne era parlato (non abbastanza) per qualche giorno, poi le voci sono scomparse, cancellate probabilmente in risposta all’alzata di scudi (e verosimilmente di avvocati) da parte delle aziende e delle associazioni di settore.

Anche in quell’occasione, qualcuno aveva invitato a “non generalizzare”. Anche in quell’occasione si era parlato di singoli casi, mele marce, si era difeso il sistema. Di fronte a quello che è emerso, e continua a emergere, vogliamo ancora minimizzare?

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