Futuro

Per sfuggire al riconoscimento facciale basta un maglione

Rachele Didero ha fondato CAP_able, una start-up che crea abiti con un tessuto in grado di impedire alle intelligenze artificiali di identificare il volto di chi li indossa. L’abbiamo incontrata e ci siamo fatti raccontare come
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25 aprile 2023 Aggiornato alle 17:00

Risalire all’identità di una persona, ai suoi dati personali, tramite un video o una fotografia. Sembra la trama di un film di Spielberg eppure non è così, il riconoscimento facciale è ormai realtà.

In continua espansione ed estremamente redditizia, secondo alcune ricerche questa tecnologia varrà, nel 2025, circa 8,5 miliardi di dollari, partendo dai 3 miliardi del 2020. Numeri astratti per alcuni poiché, quando si parla di intelligenze artificiali, risulta complesso mettere in ordine le idee, afferrare l’entità di rischi e benefici e, soprattutto, la portata e la diffusione reale di queste tecnologie.

Per comprendere quanto sia capillare il fenomeno, Comparitech ha quindi lanciato uno studio sui 100 Paesi più popolosi del mondo, suddividendoli secondo un punteggio da 0 a 5, in cui lo 0 indica un utilizzo invasivo del riconoscimento facciale dalla pubblica amministrazione ai servizi aeroportuali, dai trasporti passando per il luogo di lavoro.

Forse non ne siamo consci, ma lo vediamo tutti giorni: l’era digitale e l’avvento dei social network ci hanno abituati alla virtualizzazione delle nostre informazioni, merce di scambio a cui talvolta rinunciamo senza molti ripensamenti. Secondo lo studio, infatti, solo 6 Paesi su 100 non utilizzerebbero il riconoscimento facciale, mentre sono soltanto 2 (Belgio e Lussemburgo) ad aver vietato questa tecnologia. Per il resto, sette Paesi su 10 utilizzano il riconoscimento facciale su larga scala, il 20% lo usa nelle scuole, il 40% nei posti di lavoro, l’80% nel settore bancario e il 70% delle forze dell’ordine a livello globale (considerando i paesi analizzati) hanno in dotazione questa tecnologia. In cima alla classifica troviamo Cina, Russia, Emirati Arabi e ancora Giappone, India e Cile.

Mentre in Italia si discute del controverso divieto di ChatGTP, appare evidente che tecnologie altrettanto controverse ci coinvolgono in prima persona, pervadendo le nostre vite e lasciandoci la sensazione di non poterci opporre in alcun modo. Ne parliamo con Rachele Didero, imprenditrice torinese fondatrice della start-up CAP_able, che della protezione dei dati, in particolare quelli biometrici, ha fatto la propria missione di vita.

«Per dati biometrici si intendono tutte le caratteristiche, per esempio fisiche, che ci contraddistinguono in maniera univoca e che ci accompagneranno per tutta la vita. Dal nostro Dna, all’iride, fino alla nostra impronta digitale, questi sono esempi di dati biometrici, che non possiamo scegliere di cambiare. Io posso avere lo stesso nome di un’altra persona oppure cambiarlo e sceglierne un altro ma non posso fare lo stesso con le mie impronte digitali».

Dati ultrasensibili che, definendoci con assoluta certezza dovrebbero essere trattati con cautela, evitando di esporli quando non necessario. Se da un lato, infatti concediamo (alle varie piattaforme, ma non solo) i nostri dati pur di essere presenti nel mondo 4.0., dallaltra ci sono situazioni, come nel caso del riconoscimento facciale, in cui la tecnologia riesce a risalire e ad appropriarsi dei nostri dati senza un effettivo consenso.

«La prima volta che ho sentito parlare dell’esistenza di telecamere a riconoscimento biometrico mi trovavo negli Stati Uniti, a New York, per studiare. In quei giorni, in un complesso residenziale a Brooklyn i residenti avevano denunciato i proprietari dei propri appartamenti per aver installato delle telecamere a riconoscimento biometrico, vincendo la causa. In quell’occasione ho iniziato a pensare fosse incredibile il fatto che non esistesse niente capace di proteggere i nostri dati biometrici, a partire dal volto».

Alla tecnologia che viaggia veloce, sviluppandosi talvolta selvaggiamente e senza regole, si può rispondere solo creando proposte sui generis. Per fare ciò ogni contributo è prezioso anche coinvolgendo discipline che con la protezione dei dati sembrano avere poco in comune, come la moda.

L’idea fondante del progetto CAP_able è infatti che questa possa essere funzionale anche contaminandosi con altre vocazioni, talvolta più tecniche. Come? Sviluppando e brevettando un tipo di tessuto che annulla l’efficacia delle intelligenze artificiali, impedendo loro di identificare il volto di chi lo indossa.

«Il tessuto si basa su immagini avversarie, ovvero quelle che riescono a confondere l’intelligenza artificiale, nello specifico l’algoritmo su cui si basa il sistema di riconoscimento in tempo reale. La novità sta nell’essere riusciti a trasporre queste immagini avversarie su elementi tridimensionali, in questo caso il tessuto, in modo che siano efficaci anche quando il soggetto si muove, a prescindere dalla luminosità o dall’ambiente intorno».

Un’idea innovativa che assume chiaramente una connotazione politica e sociale. Creare un antidoto al riconoscimento facciale non è da intendere come un escamotage per raggirare chi queste tecnologie le utilizza, critica che è stata mossa a Didero numerose volte, ma un modo per proteggersi, anche dalle discriminazioni.

La deriva razzista non è, infatti, una preoccupazione priva di fondamento ma una realtà consolidata in tecnologie così avanzate. Gli algoritmi di riconoscimento facciale che raggiungono un tasso di accuratezza del 90%, si rilevano meno precisi in riferimento ad alcuni gruppi demografici. Secondo i risultati di Gender Shades del 2018, progetto che mette alla prova gli algoritmi di IBM e Microsoft, infatti, questi farebbero fatica a distinguere i soggetti di genere femminile, nello specifico donne bipoc tra i diciotto e i trent’anni. Va da sé che l’accuratezza, in una tecnologia utilizzata anche a livello statale e per questioni di sicurezza, debba essere un diritto da garantire a tutti e tutte.

Tornando a CAP_able, mettere insieme immagini e algoritmi passando per la moda richiede una buona dose di tecnica e tanta creatività. Dalla scelta del cotone al collaudo del capo, anche la palette di colori contribuisce al funzionamento della tecnologia. Didero comunque non esclude, in futuro, di ridurre la gamma dei toni proposti e di integrare nel progetto l’utilizzo di altri materiali.

«Ci interessa incontrare il gusto della gente, così che sempre più persone possano indossare i nostri capi. Noi pensiamo ai nostri articoli come dei prodotti che in futuro saranno indispensabili per tutelarsi e muoversi, in sicurezza, in un mondo imbevuto di tecnologia e in cui i sistemi di riconoscimento saranno sempre più diffusi. Indossare i nostri capi sarà, quindi, come munirsi di un antivirus».

La Manifesto Collection, la prima dell’azienda di fashion tech, è quindi una dichiarazione d’intenti. Forse, in un futuro prossimo, per schermarsi dalle distopie più tecnologiche non servirà sottoporsi a un trapianto di occhi al limite dello splatter, come immaginato qualche anno fa nel film Minority Report di Spielberg. Forse, per proteggersi davvero, già da oggi basterà indossare un maglione.

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