Diritti

Sì allo smartworking (ma anche alla privacy)

Una delle controindicazioni del lavoro agile è il rischio di cancellare la linea di confine che divide la dimensione personale della nostra vita da quella professionale. Come scongiurarlo?
Credit: George Milton/ Pexels  
Tempo di lettura 5 min lettura
18 gennaio 2023 Aggiornato alle 06:30

La pandemia ha spalancato le porte allo smartworking e quella che a lungo è stata necessità è, progressivamente, diventata per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo una scelta dettata, nella più parte dei casi, dall’esigenza e/o dal desiderio di bilanciare meglio la vita personale e familiare con quella lavorativa.

Una scelta condivisa da datori di lavoro e lavoratori, nel pubblico come nel privato, anche perché lo smartworking, numeri alla mano, nella più parte dei casi, non incide sulla produttività e consente al datore di lavoro risparmi rilevanti in termini di spazi, logistica e servizi strumentali all’esercizio della prestazione lavorativa da parte dei lavoratori.

Tante ragioni, insomma, per non rinunciare a questa abitudine forzatamente assunta negli anni della pandemia e rimasta con noi come una conquista preziosa per il mondo del lavoro.

Ma non c’è rosa senza spine.

E una delle spine più pungenti dello smartworking è rappresentato dal rischio di erosione della linea di confine che deve necessariamente dividere la dimensione personale della vita del lavoratore da quella professionale.

Lo racconta bene una vicenda che rimbalza dal Canada dove una lavoratrice, appunto, in smartworking, dopo aver contestato al datore di lavoro di averla illegittimamente licenziata senza motivo si è vista condannare, in accoglimento di una domanda proposta proprio dal suo ex datore di lavoro, a restituire a quest’ultimo parte dello stipendio e a risarcirlo del danno che gli aveva arrecato, lavorando meno di quanto avrebbe dovuto.

Il “testimone” di eccellenza costato alla lavoratrice diverse migliaia di dollari è un software di monitoraggio dell’attività lavorativa, anche svolta a distanza, utilizzato dal datore di lavoro.

Il software, infatti, avrebbe raccontato, attraverso i suoi file di log, che la lavoratrice, pur restando davanti al pc, anche in orario d’ufficio, avrebbe dedicato più tempo a proprie attività “digitali” personali che a quelle di lavoro.

Una “testimonianza” insuperabile, che le eccezioni difensive della lavoratrice non sono riuscite a scalfire.

Quest’ultima, infatti, nel tentativo di sottrarsi alle sue responsabilità, nel corso del giudizio, ha anche provato a sostenere che il software di monitoraggio non avrebbe tenuto conto del tempo da lei dedicato a studiare una serie di dossier d’ufficio dopo averli stampati.

Ma il software ha respinto con fermezza anche tale eccezione dimostrando, dati alla mano, che la dipendente aveva stampato solo poche pagine, incompatibili con la sua difesa.

Risultato: grazie a un software di monitoraggio particolarmente “ficcanaso” il datore di lavoro ha avuto la meglio.

Ma è giusto così? Sin dove è legittimo che un datore di lavoro si spinga nel controllo dell’attività lavorativa dei dipendenti in smartworking?

Perché se da una parte è comprensibile che il datore di lavoro abbia bisogno di verificare che lo smartworking non si trasformi in una lunga e rilassante vacanza per il lavoratore, dall’altra è sacrosanto che il lavoratore, anche a casa sua – e, anzi, soprattutto a casa sua – conservi la propria privacy senza rischiare di ritrovarsi il datore di lavoro a mettere il naso nelle sue cose personali.

Altrimenti addio alla dignità dei lavoratori e, più in generale, delle persone e alla loro riservatezza perché, con la “scusa” di controllare che un lavoratore adempia ai propri doveri d’ufficio, ogni datore di lavoro sarebbe autorizzato a entrare, almeno nella dimensione digitale, dentro casa del lavoratore e nella sua sfera più personale.

In linea di principio le regole non sono diverse da quelle che governano il monitoraggio dell’attività del lavoratore sul luogo di lavoro, anche quando posta in essere attraverso strumenti digitali.

E la regola aurea è essenzialmente una: se si può controllare che il lavoratore faccia la sua parte impedendogli, anche digitalmente, di fare altro anziché monitorando bit per bit la sua attività, questa è la strada da seguire.

Insomma, lo scopo di controllo dell’attività lavorativa, per quanto legittimo, va perseguito trattando la minor quantità possibile di dati personali.

Quindi, per tornare alla vicenda in questione, almeno in Italia, il software di monitoraggio utilizzato dal datore di lavoro, mentre avrebbe potuto “misurare” il tempo speso dalla dipendente a lavorare su documenti di lavoro, avrebbe dovuto, verosimilmente, astenersi dal tenere sotto controllo anche il tempo da quest’ultima speso, nel guardarsi un video o nell’interagire sui social e, a maggior ragione, prendere nota di quali contenuti abbiano catturato l’attenzione della lavoratrice.

Ciò che interessa al datore di lavoro, infatti, è che il lavoratore lavori effettivamente quanto dichiara di lavorare e non quanto tempo dedichi a attività diverse e, soprattutto, a quali attività diverse si dedichi.

Naturalmente non c’è una regola generale e a contesti diversi corrispondono limiti diversi all’invasività “scusabile” del datore di lavoro ma il principio è chiaro: se si può acquisire ragionevole certezza che il lavoratore ha adempiuto ai propri obblighi senza allungare lo sguardo nella sua sfera personale, è così che bisogna procedere.

*Guido Scorza è componente del Garante per la protezione dei dati personali

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