Ambiente

Qualche paradiso non è (ancora) perduto

Scoperta al largo di Tahiti una barriera corallina “incontaminata” che non è in sofferenza come le altre nel mondo. Studiarla potrebbe aiutare a salvare i coralli e gli ecosistemi marini
Tempo di lettura 3 min lettura
21 gennaio 2022 Aggiornato alle 15:00

C’è speranza in paradiso. Nel mondo, la maggior parte delle barriere coralline sta soffrendo per l’aumento delle temperature delle acque degli oceani e l’acidificazione legate alla crisi climatica e per il conseguente fenomeno dello sbiancamento. Alcune, come la Grande Barriera Corallina in Australia, nel giro di pochi decenni hanno dimezzato la quantità di coralli, animali che sono alla base delle “città” degli ecosistemi marini e della vita nei mari. Una speranza sul futuro dei coralli arriva però dalla recente scoperta di una barriera corallina al largo di Tahiti nella Polinesia francese. È intatta, brulica di vita e sembra non aver subito i segni delle ingerenze umane e del surriscaldamento.

Incontaminata, questa barriera si estende per circa tre chilometri a una profondità che varia fra 30 e 70 metri al largo della costa di Tahiti. Secondo una nota dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per educazione, scienza e cultura, che ha guidato la missione Unesco per scoprire i dettagli della barriera, si tratta di una delle più grandi barriere individuate a quelle profondità.

Fra le prime a individuarla, durante una esplorazione subacquea lo scorso anno, è stata Laetitia Hédouin che ha raccontato di aver visto per la prima volta quei coralli in una immersione ricreativa a novembre e solo successivamente un team di subacquei ha esplorato la zona confermando la scoperta.

Quando il fotografo subacqueo francese Alexis Rosenfeld è riuscito a raggiungerla ha parlato di “un’opera d’arte”, sostenendo che è “magico assistere a giganteschi e splendidi coralli rosa che si estendono a perdita d’occhio”. La missione Unesco, che intende mappare i fondali marini, potrebbe nel tempo portare a nuove scoperte del genere e raccontarci tutti i dettagli della barriera appena individuata.

Alcune difficoltà nel mapparla sono però legate alle profondità. Riuscire a scendere a oltre 50 metri e rimanere per diverso tempo a prelevare campioni è infatti sempre una sfida: per farlo il team di subacquei sta utilizzando sistemi che permettono 200 ore di immersioni e non si esclude che durante la spedizione si possano “trovare altre estensioni della barriera grazie all’aiuto di nuove tecnologie”.

In un contesto di generale difficoltà delle barriere coralline del mondo il ritrovamento di quella incontaminata di Tahiti è un segnale di speranza che segue di poco diversi studi che riguardano per esempio i coralli di alcune aree del Mar Rosso che, fortunatamente, sembrano resistere in parte all’innalzamento delle temperature oceaniche. Anche in Italia stanno proseguendo studi su alcune “scogliere coralline”, individuate fra la Puglia e l’Albania, che si trovano a diversi metri di profondità (esattamente come quelli della Polinesia) e che sono oggetto di studi da parte del Dipartimento di Biologia dell’Università di Bari.

Al momento, fa sapere Hédouin, la barriera della Polinesia non sembra aver subito alcun danno dalle potenziali onde dello tsunami legato all’eruzione del vulcano sottomarino a Tonga e che si sono fatte sentire in tutto il Pacifico. Per la ricercatrice la nuova scoperta potrebbe aiutare a comprendere la resilienza di alcune barriere ai cambiamenti climatici e la pressione antropica.

Secondo lo scienziato marino Murray Roberts dell’Università di Edimburgo “poiché le acque poco profonde si riscaldano più velocemente delle acque più profonde, in futuro potremmo scoprire che questi sistemi di barriere coralline più profonde saranno rifugi per i coralli. Dobbiamo uscire per mappare questi luoghi speciali, comprendere il loro ruolo ecologico e assicurarci di proteggerli per il futuro”.