Ambiente

Paolo Virzì: «Siccità non è un documentario né una denuncia»

«Abbiamo voluto privilegiare l’immaginario» ha spiegato il regista a La Svolta. Eppure, tutto sembra tranne che finzione. Quasi una previsione…
Credit: Paolo Ciriello
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29 settembre 2022 Aggiornato alle 17:00

A Venezia, pur essendo fuori concorso, Siccità di Paolo Virzì (nelle sale da oggi), ha riscosso un grande successo di pubblico e critica, vincendo il premio Pasinetti e soprattutto il Green Drop Award, istituito nel 2012 da Green Cross Italia e dalla città di Venezia, che premia le opere che interpretano nel miglior modo i valori dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile con particolare attenzione alla conservazione del pianeta e dei suoi ecosistemi per le generazioni future.

«Mi ha fatto molto piacere ricevere questo premio – ci racconta Paolo Virzi, che ha scritto il film con Francesca Archibugi, Paolo Giordano e Francesco Piccolo – anche se è tutto metaforico quello che noi raccontiamo. Non è un documentario, né un film di denuncia. Su un tema così importante come quello dell’emergenza idrica, abbiamo voluto privilegiare l’immaginario rispetto alla realtà, e agli studi degli scienziati che ci ammoniscono su questa situazione così grave. Vedere Roma monumentale ridotta a deserto, senz’acqua da 3 anni, infestata dalle blatte, è visionario».

Questa estate le temperature sono arrivate a 45 gradi, e si è cominciato a parlare di siccità.

«Oggi, ma fino a due anni fa si parlava poco di siccità, eppure non serviva la sfera di cristallo per capire che andavamo verso un allarme idrico importante, bastava ascoltare le parole degli scienziati. Certo è incredibile quello che è successo, perché il film è stato concepito e scritto nella primavera 2020, poi inaspettatamente questa estate la siccità è diventata un tema di grande attualità, devo dire che non ce lo aspettavamo. La scelta di ambientare tutto in una Roma assetata, asciutta come il Tevere, è venuta da sé. Come potevamo non scegliere Roma. La città che per prima ha avuto gli acquedotti, costruita sull’acqua pubblica, l’icona del progresso di secoli che si sgretola e muore di sete e di sonno. È un film catastrofico, lo ammetto, ma in cui c’è la speranza di un lieto fine».

Sicuramente è un film sullo sgomento delle persone, oltre che sull’aridità del clima.

«Volevamo raccontare quello che stava succedendo in questo Paese, i contrasti tra chi diceva che ci saremmo abituati a tutto e chi era convinto che sarebbe stato sempre peggio. Un film che parla, oltre che di emergenza climatica e di virus, anche di isolamento, e che ci fa capire, quanto è stupido ragionare ancora in termini di confini nazionali».

In Siccità c’è anche tanta emarginazione. I personaggi sono tutti l’uno contro l’altro.

«Sono quegli stessi sentimenti scaturiti, secondo me, da questi due anni di pandemia, soprattutto la solitudine, la diffidenza, il sospetto verso gli altri. Una condizione di emergenza che ha alimentato la rabbia, espressa con queste nuove forme di ferocia, individuali e distruttive, che ritrovo dovunque nel mondo. I gilet gialli in Francia, i nostri No Vax, Capitol Hill in America. C’è una risposta reazionaria alle tematiche urgenti di oggi, che mi preoccupa».

Un film corale dai toni apocalittici, ma pieno di reale umanità con un cast decisamente ricco: Valerio Mastandrea, Silvio Orlando, Monica Bellucci, Claudia Pandolfi, Max Tortora, Vinicio Marchioni, etc. Come mai questa scelta?

«Dopo strade vuote, lockdown, canti dalla finestra e tanto distanziamento, ho avuto il desiderio di avere un grande set corale, e di avere tante persone intorno a me. In più la storia, dovendo raccontare una società intera, e le conseguenze sulle persone di quello che è successo in questi anni, aveva bisogno necessariamente di tanti attori. Una situazione non semplice da dirigere, ma ho avuto il vantaggio di mettere in piedi un coro umano di voci e di volti, di solisti eccezionali. Sono stato molto fortunato. Artisti eccezionali che si sono messi a disposizione, con grande generosità verso un film così collettivo, senza nessun personaggio che prevalesse».

Molti critici hanno definito Siccità un po’ cinico.

«Non sono d’accordo. Questo aspetto così cinico che hanno, per esempio gli americani e che sanno ben rappresentare nel cinema, è qualcosa che non ci appartiene, invece in Siccità, ho voluto ritrarre la nostra grande umanità, che è insita nel nostro DNA. Noi possiamo essere ironici, anche sarcastici, ma dentro abbiamo sempre questo sentimento di compassione, nei confronti di noi stessi e degli altri. Coltiviamo in qualunque modo la speranza di salvarci».

Il suo sguardo è piuttosto tenero nei confronti di questi personaggi.

«Nonostante siano ritratti con crudeltà, in alcuni di loro si intreccia il mio sguardo pieno di tenerezza, un sentimento che coltivo anche nei confronti di tutti noi. È lo stesso sguardo, perché mi commuove oltre che innervosirmi, il modo in cui ci attacchiamo a cose inutili senza renderci conto che in fondo ci stiamo estinguendo. Questo mi rende pietoso non cinico. Certo, una cosa è molto vera, e cioè che rispetto al passato in cui ero più aspro, più carogna con i miei personaggi, stavolta ci ho messo un carico di dolcezza infinito».

Come vede il nostro prossimo futuro? La situazione è molto grave, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche economico, sociale, politico.

«In due anni è cambiato tutto. E peggiora, sempre di più. Tra l’altro ogni giorno arrivano notizie ancora più allarmanti, una situazione che si esaspera ovunque: calamità naturali, inquinamento, guerre alimentate dal denaro e dal gas, povertà, violenza, risorse minerarie che scarseggiano, le temperature che si stanno alzando molto di più del previsto, tanto è vero che gli scienziati stanno ricalcolando quel count down che abbiamo sulla testa. Per non parlare della democrazia in grave crisi dovunque. Se è servita a qualcosa la pandemia, è stato quello di farci capire che questi temi, queste emergenze, riguardano proprio tutti, ogni abitante su questa terra, nessuno escluso».

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Siccità
di Giacomo Talignani 2 min lettura