Credit: Maria Michela D'Alessandro
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Ambiente

Ma che caldo fa, che le renne non si orientano più

La Siberia, nel 2020, ha toccato i 38°: queste temperature sono un problema anche per la migrazione delle renne
di Chiara Manetti
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
2 gennaio 2022 Aggiornato alle 10:00

C’è una città, a 115 chilometri a nord del Circolo Polare Artico, in cui le temperature hanno toccato i 38 °C nel 2020. Lo ha reso noto l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, fissando una cifra record per quella che è la regione più settentrionale della Terra.

L’agenzia climatica delle Nazioni Unite ha certificato che il 20 giugno dell’anno scorso a Verkhoyansk, nella Siberia orientale, è arrivata un’ondata di caldo anomalo e prolungato che ha raggiunto una media di 10 gradi sopra la norma. Secondo il sito Weatherspark, di solito la stagione calda a Verkhoyansk dura 3 mesi e mezzo, da fine maggio ai primi di settembre, e la temperatura giornaliera massima raggiunge i 9 °C. Il mese più caldo dell’anno è luglio, che tocca picchi massimi di 20 °C. “Questo nuovo record dell’Artico è un campanello d’allarme che mostra che il nostro clima sta cambiando”, ha dichiarato il segretario generale dell’Omm, Petteri Taalas.

Nel corso del 2020 l’Artico è stata una delle regioni a registrare un innalzamento della temperatura tra i più alti al mondo, con 2 gradi in più della sua media preindustriale: le latitudini si stanno riscaldando a più del doppio della velocità della media globale a causa della rapida perdita di ghiaccio marino. Sciogliendosi, infatti, lo strato bianco altamente riflettente lascia spazio alla distesa blu-nerastra dell’Oceano, che assorbe più facilmente il calore. L’Omm ha affermato che l’ondata di calore dello scorso anno “ha alimentato incendi devastanti”, incoronando il 2020 come uno degli anni più caldi mai registrati nella regione.

In prossimità dell’Alaska, molto più a est di Verkhoyansk, si estende l’estremo lembo di terra della Siberia orientale, la Chukotka. Come scrive il giornalista Marzio G. Mian, fondatore con altri della società no profit The Arctic Times Project, si tratta del “simbolo di una gigantesca strategia di sfruttamento di una regione sempre più accessibile a causa del progressivo scioglimento dei ghiacci”.

La regione è, infatti, ricchissima di risorse come petrolio, gas e minerali preziosi come l’oro, sempre più raggiungibili via via che il ghiaccio si scioglie: Roman Abramovich, oggi proprietario del Chelsea Football Club e governatore della regione dal 2000 al 2008, possiede i più grandi giacimenti di oro e rame del pianeta. Un abitante del luogo ha spiegato a Mian che è in costruzione un nuovo porto per il commercio di rame e oro, proprio dove si portano le renne a ingrassare prima del parto. Una pratica che dura da 400 anni, “Ma tra 5 non ci saranno più i pascoli, non ci saranno più le renne e scompariranno i villaggi, perché non esiste vita nella tundra senza le renne” dice preoccupato al giornalista.

Questi animali, abituati a sopportare le temperature più rigide del pianeta, si stanno decimando in tutto il mondo: secondo il Cosepac, l’autorità governativa canadese dedita al monitoraggio delle specie in pericolo, renne e caribù sono molto sensibili ai cambiamenti climatici. L’American Geophysical Research Union ha rilevato che il numero di esemplari di renna è precipitato da 5 a 2 milioni, con un calo del 56%. Queste specie migrano con l’alternarsi delle stagioni, attraversando la tundra: ma in Siberia i camion prelevano oro e rame dalle miniere, occupando la rotta percorsa dalle renne durante la migrazione. E queste non sanno più dove andare. Per estrarre l’oro, poi, viene impiegato il cianuro, che finisce nell’acqua e la avvelena. La comunità indigena della Chukotka ha scritto una lettera all’Onu, appellandosi alla dichiarazione dei diritti delle popolazioni indigene, perché il loro futuro è a rischio. E, man mano che il ghiaccio si scioglie, lo è anche la sopravvivenza delle renne.

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