Ambiente

Guida agli impianti italiani che bruciano i rifiuti

Dove si trovano, come funzionano quelli di nuova generazione e qual è il loro impatto ambientale. Per quello di Roma il sindaco Roberto Gualtieri guarda al “modello Copenaghen”
L'inceneritore del Gerbido
L'inceneritore del Gerbido Credit: ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO
Fabrizio Papitto
Fabrizio Papitto giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
30 giugno 2022 Aggiornato alle 13:00

Dopo l’annuncio messianico del sindaco di Roma Roberto Gualtieri, che ad aprile ha dichiarato di voler dotare la capitale di un termovalorizzatore entro il Giubileo 2025, si è riacceso il dibattito sugli impianti e sull’opportunità del loro impiego per lo smaltimento dei rifiuti indifferenziati.

Secondo l’ultimo rapporto realizzato dal Centro nazionale dei rifiuti e dell’economia circolare dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), oggi in Italia sono attivi in tutto 37 termovalorizzatori.

Il nostro Paese, come si evince dalla mappatura aggiornata al 2019 della Confederazione europea degli impianti di termovalorizzazione (Cewep), è il quarto in Europa per numero di impianti dopo Francia (124) Germania (100) e Regno Unito (48).

Di questi, 13 prevedono il solo recupero energetico elettrico, mentre 24 sono gli impianti con ciclo di cogenerazione, che oltre alla produzione di energia meccanica permettono di generare calore utilizzabile per il riscaldamento degli edifici.

Dove sono

Il parco impiantistico è concentrato in particolare nel Nord Italia, che ospita 26 impianti contro i 5 operativi al Centro e i 6 al Sud. Tra le regioni a più alta incidenza troviamo la Lombardia e l’Emilia Romagna, rispettivamente con 13 e 7 impianti che nel 2020 hanno trattato il 74,5% dei rifiuti inceneriti al Nord.

Nel 2020 è stato incenerito il 18,4% dei rifiuti urbani, corrispondenti a 5,3 milioni di tonnellate, con un recupero pari a circa 4,5 milioni di MW/h di energia elettrica e oltre 2,3 milioni di MWh di energia termica.

La quota smaltita è ascrivibile per il 70,2% al Nord, contro il 10% al Centro Italia e il 19,8% al Sud, dove il 66% dei rifiuti viene incenerito dall’impianto di Acerra (Napoli).

Circa la metà dei rifiuti avviati a incenerimento, 2,7 milioni di tonnellate, è costituita dai rifiuti urbani, mentre il resto è rappresentato da rifiuti derivanti dal trattamento degli stessi, che includono frazione secca, rifiuti combustibili e bioessiccato.

Dai dati analizzati da Ispra emerge come «il ricorso all’incenerimento non costituisca un disincentivo all’aumento della raccolta differenziata», che ha continuato a registrare un incremento nel corso degli anni.

Come funzionano

Il ciclo di smaltimento dei rifiuti inizia quando questi vengono immessi nell’inceneritore e scaricati nella vasca di raccolta e miscelazione. Quindi vengono caricati nelle caldaie, dove avviene l’ossidazione a una temperatura intorno ai 1.000 °C.

Il calore prodotto dalla combustione genera vapore ad alta pressione, che viene convogliato in un turbogeneratore per la produzione di energia elettrica e, in seguito, utilizzato per scaldare l’acqua che alimenta la rete urbana di teleriscaldamento.

Quanto inquinano

Come si apprende dal Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani realizzato dal Politecnico di Milano e di Torino e dalle Università di Trento e di Roma Tor Vergata, «un impianto di incenerimento ben progettato e correttamente gestito, soprattutto se di recente concezione (dagli anni 2000 in poi), emette quantità relativamente modeste di inquinanti e contribuisce poco alle concentrazioni ambientali».

Già nella camera di combustione, infatti, i fumi vengono trattati con ammoniaca per abbattere gli ossidi di azoto. In uscita dal circuito della caldaia vengono depurati dai microinquinanti, quindi passano attraverso filtri a maniche che trattengono le polveri in sospensione prima di essere convogliati nel camino. Questo fa sì che il termovalorizzatore abbia un impatto ambientale 8 volte inferiore a quello della discarica in termini di emissioni di CO2.

Inoltre, nonostante nel periodo dal 2000 al 2018 preso in esame la quantità di rifiuti avviati al recupero energetico sia quasi triplicata, «i valori evidenziano un contributo poco rilevante dell’incenerimento, con incidenze pari a meno dell’1% sia per i macroinquinanti che per i principali inquinanti in traccia e con una visibile tendenza alla riduzione».

«Senza alcuna pretesa di generalizzazione dell’assetto nazionale a contesti territoriali e produttivi localizzati in aree ristrette - conclude il rapporto - le stime confermano un contributo emissivo dell’incenerimento molto limitato, quando non quasi trascurabile, rispetto a quelli del complesso delle altre sorgenti».

Il caso Copenaghen

Quando si parla di termovalorizzatori, l’esempio più citato è l’impianto di Amager Bakke inaugurato nel 2017 a Copenaghen.

Progettato dall’archistar Bjarke Ingels, l’impianto danese noto come Copenhill è un avveniristico promontorio artificiale dalla sagoma in alluminio che in 41mila mq include un ascensore per le terrazze panoramiche, una caffetteria, una stazione sciistica con impianto di risalita e, su uno dei lati verticali, quella che con i suoi 85 metri è la parete da arrampicata più alta al mondo.

L’impianto è stato realizzato dalla società intercomunale di gestione rifiuti Amager Resource Center (Arc) con un investimento di oltre 600 milioni di euro, ed è in grado di smaltire oltre 500.0000 tonnellate di rifiuti l’anno con un rendimento energetico complessivo del 107%. È inoltre dotato di un sistema di pulizia dei fumi tra i più efficaci al mondo, col quale Copenaghen punta a diventare «la prima capitale carbon neutral» entro il 2025.

Sebbene Copenhill continui a essere preso a modello dai sostenitori del termovalorizzatore, ultimo Roberto Gualtieri, una narrazione alternativa ha puntato il dito sul volume dei rifiuti importati dalla Danimarca per soddisfare il fabbisogno dell’impianto.

Oggi il Paese scandinavo produce ogni anno circa 800 kg di rifiuti pro capite a fronte di una media europea di circa 500 kg, e il Piano per l’economia circolare approvato dal governo danese prevede una riduzione della capacità di incenerimento del 30% entro il 2030. Un’evidenza che sembra testimoniare, una volta di più, quanto fare affidamento sul solo termovalorizzatore risulti insufficiente o, nei casi peggiori, controproducente.

Come ha spiegato bene Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, il ricorso agli impianti di termovalorizzazione deve integrarsi con le pratiche del riciclo proprie dell’economia circolare, in modo da ridurre la frazione indifferenziata e chiudere il ciclo dei rifiuti col minor impatto possibile per l’ambiente.

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