Ambiente

La desalinizzazione può salvarci dalla siccità?

Mentre l’Italia è stretta nella morsa del caldo e della crisi idrica, la nuova normativa in tema di desalinizzazione dell’acqua marina fa discutere
Adelaide Desalination Plant (epa.sa.gov.au)
Adelaide Desalination Plant (epa.sa.gov.au)
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
28 giugno 2022 Aggiornato alle 19:00

Il caldo, le temperature elevate e la prolungata siccità continuano a tenere sotto scacco la Penisola e proprio in questi giorni l’entrata in vigore di una nuova legge scalda gli animi, tanto per rimanere in tema, nel dibattito sulla desalinizzazione dell’acqua.

Ieri, il capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio ha fatto sapere che il governo intende dichiarare lo stato d’emergenza a causa della siccità. «Non si può escludere nemmeno il razionamento diurno dell’acqua. I criteri e le misure li stiamo definendo con le regioni - ha spiegato in un’intervista a SkyTg24 - Siamo al 40-50% di quantità d’acqua piovuta in meno rispetto alle medie degli ultimi anni, mentre il Po ha circa l’80% in meno della sua portata».

In un contesto del genere, l’installazione di impianti di desalinizzazione potrebbe essere una soluzione, se non immediata, per far fronte all’attuale emergenza idrica, almeno a lungo termine: consentirebbe, infatti, di correre ai ripari per gli anni torridi che ci attendono ed evitare la desertificazione dei campi agricoli e il progressivo inaridimento di corsi e bacini d’acqua.

Di tutt’altro avviso pare essere la cosiddetta Legge SalvaMare (legge n.60 del 17 maggio 2022) che vincola la costruzione dei dissalatori a una serie di condizioni e a un iter autorizzativo piuttosto lungo e articolato, che potrebbe durare anche più di 5 anni: ad appesantire ulteriormente la pratica vi è il fatto che le autorizzazioni non possono essere demandate, come si è fatto sino a ora, alle regioni, ma a imbuto verranno tutte sottoposte alla commissione ministeriale competente.

Il testo normativo rende la dissalazione ammissibile solo dopo una valutazione di impatto ambientale, in situazioni di comprovata carenza idrica e in mancanza di fonti potabili alternative. Non solo, è necessario che siano stati svolti gli opportuni interventi per ridurre le perdite della rete degli acquedotti e gli impianti devono essere previsti nei piani di settore in materia d’acqua.

«Anziché discutere di quante docce facciamo al giorno, per combattere la scarsità d’acqua l’Italia deve eliminare gli insensati ostacoli alla costruzione di impianti di desalinizzazione dell’acqua marina», è insorto Piercamillo Falasca, coordinatore nazionale del nuovo movimento politico L’Italia C’è.

«Nel mondo, la desalinizzazione dell’acqua per fornire acqua dolce ad agricoltura, industria e usi civili procede a passi da gigante, peraltro con una costante riduzione dell’energia necessaria per produrla. Ma in Italia la desalinizzazione di acqua marina copre solo lo 0,1% del nostro fabbisogno e ora abbiamo reso pressoché impossibile la realizzazione di nuovi impianti, con una legge pubblicata in Gazzetta Ufficiale pochi giorni fa».

Secondo le Nazioni Unite, in tutto il globo vi sono intere comunità che non dispongono di un accesso costante e sicuro all’acqua: infatti, a dispetto della vasta presenza di bacini idrici sul pianeta, solo il 2,5% del totale di acqua sulla Terra è potabile. In un articolo della rivista Science Advances si legge che entro il 2050 la percentuale di persone che vivranno in aree nelle quali si dovrà affrontare la scarsità o il contingentamento dell’acqua per almeno un mese all’anno potrebbe salire fino al 57%.

Gli impianti che rimuovono il sale dall’acqua del mare potrebbero contribuire ad assicurare l’acqua dolce necessaria per il fabbisogno della popolazione mondiale. Si tratta di vasche in cui confluiscono enormi volumi d’acqua, convogliati e pompati tramite membrane ad alta pressione che filtrano le componenti saline e lasciano passare solo le molecole d’acqua.

Per quanto riguarda i costi, si parla di circa 15 milioni di euro per la costruzione e 500.000 all’anno per la manutenzione: una struttura del genere è in grado di produrre circa 2,5 milioni di metri cubi di acqua potabile all’anno. In tutto il mondo si contano circa 20.000 impianti di desalinizzazione: stiamo parlando di una quantità di oro blu pari a circa la metà del flusso medio delle Cascate del Niagara.

Tra i maggiori consumatori di acqua desalinizzata vi sono i Paesi del Medio Oriente, Israele che possiede uno dei più grandi impianti a Sorek, in grado di produrre 627.000 metri cubi di acqua dissalata al giorno. Ma anche le Bahamas, le Maldive e Malta, che soddisfano interamente il proprio fabbisogno idrico con questo processo.

Risale a pochi giorni fa, inoltre, l’accordo della compagnia Enowa Energy, Water and Hydrogen dell’Arabia Saudita - che a oggi ricava circa il 50% dell’acqua potabile tramite la desalinizzazione - con la società giapponese Itochu e la francese Veolia per costruire il primo impianto di dissalazione basato su energia rinnovabile nella cornice futuristica di Neom, la smart city che l’Arabia intende costruire tra le dune del deserto.

Lo ha riferito l’agenzia di stampa saudita “Spa”, spiegando che la società “Enowa” comincerà a lavorare entro il 2024 per creare le condizioni ideali per un approvvigionamento idrico sostenibile e abbondante per la città, grazie all’utilizzo di tecnologie di ultima generazione. Il nuovo impianto avrà una capacità produttiva di 500.000 metri cubi di acqua dissalata al giorno e sarà in grado di soddisfare circa il 30% della domanda totale d’acqua nella città.

Ovviamente, si tratta di un processo non privo di complicazioni: la desalinizzazione, infatti, presenta principalmente due ordini di problemi. Da una parte, la maggioranza degli impianti esistenti si avvale di combustibili fossili, che contribuiscono al riscaldamento globale, dall’altra il filtraggio finisce per produrre la salamoia tossica, inquinante per gli ecosistemi costieri e marini.

Per ogni litro di acqua dolce prodotta, si generano in media 1,5 litri di liquido denso di cloro e rame. Si tratta di acque reflue, due volte più saline di quella salmastra, che per l’80% defluiscono nei mari, nei fiumi, nei laghi e che rischiano di creare vere e proprie “zone morte”, dove riescono a sopravvivere pochissime specie animali.

Il primo problema può essere superato optando per una conversione delle infrastrutture a fonti di energia rinnovabile, che ridurrebbero drasticamente le emissioni. Il secondo, invece, è un po’ più complesso.

«Sono in fase di sviluppo nuove tecnologie per affrontare questi problemi, ma nel frattempo è importante aumentare la consapevolezza sui compromessi con la desalinizzazione», afferma Birguy Lamizana, esperta di acque reflue presso il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP).

Secondo alcuni studi, una possibile soluzione potrebbe essere quella di raccogliere la salamoia per ricavarne il sale commerciale o recuperare metalli rari e costosi da estrarre dal suolo. Ma è un ambito di ricerca ancora inesplorato.

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