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Rare disease day: con la diagnosi «finalmente quello che sentivo aveva un nome»

Elania Zito, volto dietro l’account Instagram @ragazzabehcet (che fa divulgazione sulle malattie rare), ha raccontato a La Svolta come si è sentita il giorno in cui ha scoperto di avere la Behçet: «Avrei ricevuto una terapia e le risposte alle mie tante domande»
Elania Zito
Elania Zito
Tempo di lettura 7 min lettura
29 febbraio 2024 Aggiornato alle 17:00

Nella vita, Elania Zito comunica: il suo lavoro è far conoscere l’Unione europea a chi la “sente lontana”. Ma non fa solo questo.

Infatti, con un dottorato in studi politici alla mano, un podcast e una newsletter, ha trasformato le sue piattaforme social in un luogo di accoglienza per tutte le persone che si interrogano sulle malattie rare (e vorrebbero capirne di più).

La Svolta ha intervistato Zito in occasione del Rare disease day.

Ci può parlare della sua malattia?

Io ho la malattia di Behçet, che è una malattia rara: è una vasculite cronica, un’infiammazione dei vasi sanguigni e provoca ulcere bipolari, lesioni cutanee e disturbi agli occhi. Questi sono i criteri principali che vengono identificati nel percorso di diagnosi, ma la malattia può colpire anche articolazioni, sistema nervoso centrale e gastrointestinale. Inoltre, secondo quanto riportano le ricerche, può essere legata alla presenza del gene HLA-B51, ma la mutazione genetica non è un criterio esclusivo e proprio per questo la diagnosi resta clinica: ovvero, si valutano le manifestazioni del paziente, ma possono volerci anni prima una diagnosi ufficiale. La Behçet (o anche il Behçet) è detta “Malattia della Via della Seta” perché è più frequente nell’area che va dal Mediterraneo alla Cina, pur essendo diffusa in tutto il mondo; si manifesta verso i 20 anni, ma esistono anche casi di Behçet pediatrico.

Quando ha scoperto di avere una malattia rara? Cosa ha provato?

In una giornata caldissima di agosto 2020. Venivo da due anni di percorsi ospedalieri, dopo aver avuto febbri ricorrenti nel 2017 che mi provocarono, poi, una pericardite nel settembre 2018 che aprì le danze a tutto quello che è venuto dopo. In quel periodo ero molto attiva sportivamente: praticavo corsa, nuoto e andavo anche in bicicletta a Roma. Quando mi dimisero dal pronto soccorso, in un pomeriggio di settembre, il medico di turno mi disse che con ogni probabilità avrei dovuto iniziare un percorso lungo e faticoso per indagare e capire cosa ci fosse che non andasse, al di sotto della pericardite. E che per il momento avrei dovuto limitare gli sforzi. Ovviamente aveva ragione: ho dovuto stipare la bici, accantonare il nuoto e la corsa.

Ho un iniziato un percorso di diagnosi lungo e faticoso; paradossalmente, però, quando ho ricevuto la diagnosi ufficiale mi sono sentita quasi “sollevata”. Perché finalmente quello che sentivo era reale e aveva un nome. Avevo passato gli ultimi anni a sentirmi pazza tra corsie, reparti e ambulatori, come se i dolori, le sensazioni e le difficoltà (anche minime, che fosse leggere un libro o portare un sacchetto della spesa) fossero tutte nella mia testa. Perché nelle malattie autoimmuni può capitare che analisi ed esami diano risultati negativi e che, in apparenza, il paziente sembri in salute. Ho avuto la fortuna di essere seguita da medici giovani e aperti alla ricerca, che mi hanno ascoltata e con cui abbiamo instaurato un ottimo rapporto di comunicazione medico-paziente. E con la diagnosi ufficiale mi sono sentita finalmente “vista”. La mia malattia aveva un nome e io avrei ricevuto una terapia, insieme alle risposte alle mie tante domande.

È difficile convivere con una malattia rara?

È una seccatura. Psicologicamente e fisicamente, anche se ti adatti da subito. Sono sempre stata indipendente e autonoma; poi invece ho dovuto condividere con la malattia ritmi ed energie. La mia vita è cambiata molto, ma allo stesso tempo ho capito tanti cortocircuiti a cui non ho mai saputo dare una spiegazione, prima della diagnosi. E per me che sono una persona che ha bisogno di capire e razionalizzare le cose, è stato d’aiuto. Però è difficile conviverci perché il tuo corpo cambia costantemente ed è psicologicamente faticoso vederti sempre diversa, non riconoscerti allo specchio, ma doverti comunque accettare in un corpo che è governato da un sistema immunitario in tilt, che vuole farti la guerra non si sa perché e non si sa per quanto. Almeno fino a quando non individuano la terapia giusta per te.

Allo stesso tempo, però, è difficile convivere con una malattia rara in quella che è la nostra relazione con gli altri. Non è tanto infatti la relazione personale con la malattia a rendere tutto più difficile, ma la componente psicologica che si innesca quando portiamo avanti la nostra vita. Perché sarà pure cambiata ma lavoro, amici, relazioni e cose di tutti i giorni rimangono. Molto spesso, infatti, sono i pregiudizi (o anche il giudizio) di chi ci sta attorno a rendere la nostra convivenza con la malattia più difficile e a far nascere sensi di colpa. Soprattutto nei casi di malattia rara invisibile, come è la mia. In situazioni passate, ho portato il mio corpo allo stremo pur di non sentirmi giudicata sul lavoro perché il mio mal di schiena cronico, le emicranie o un semplice day off per fatigue era reputato esagerato, o peggio, come una comfort zone. Non mi faccio i complimenti per aver cercato di assecondare le insicurezze di altri, maltrattando il mio corpo. Ma con il tempo ho capito che dobbiamo stare bene prima con noi stessi, per stare bene nelle dimensioni dove ci sono anche gli altri.

Perché è importante ricordare che oggi è la Giornata mondiale delle malattie rare?

È importante che le persone ci vedano e ci includano nelle loro vite. Una giornata di consapevolezza come oggi serve a capire che anche una tua amica o il tuo collega di lavoro, apparentemente sani, possono avere una malattia rara e ritrovarsi a conviverci da un momento all’altro. Non solo. Serve anche a diffondere più conoscenza su un mondo fino a qualche anno fa sconosciuto, direi forse anche spaventoso, limitante e governato da stereotipi. Giornate come quella di oggi contribuiscono a rompere i bias esistenti per cui una persona con malattia rara non possa avere una vita come gli altri, e contribuire ad aprire gli occhi di chi ha ancora difficoltà a vedere oltre le apparenze, oltre a fornire gli strumenti per comprendere le disabilità invisibili che generano ancora molti fraintendimenti e hanno bisogno di essere comunicate per essere viste e comprese. Ma è una giornata fondamentale anche per ricordare l’importanza della ricerca e il lavoro prezioso che svolgono i medici: è grazie a questa combinazione che noi malati rari possiamo condurre una vita normale, costruirci un futuro e concretizzare le nostre ambizioni.

Attraverso il suo account Instagram @ragazzabehcet racconta la sua esperienza: le è mai capitato di ricevere messaggi da persone che vogliono condividere la loro esperienza?

Sì, sempre. L’account Ig @ragazzabehcet è nato all’indomani della diagnosi ufficiale perché la prima cosa a cui ho pensato (credo un po’ per deformazione professionale) è stata “ok, come comunico questa cosa e come posso aiutare altre persone con la mia stessa malattia?”. Mi ricordo di avere passato le settimane successive alla diagnosi su Google, alla ricerca di qualsiasi tipo di informazione, ma 4 anni fa non c’erano molte risorse in italiano sulla Behçet, e di essere andata alla ricerca di “persone come me” proprio su Instagram. Ma non avevo trovato nessuno. Così ho pensato a creare @ragazzabehcet e ho iniziato a raccontare la mia esperienza, raccogliendo informazioni che potessero tornare utili per creare community. Ricevo quotidianamente messaggi da giovani, anche più piccoli di me, ma anche da genitori alle prime esperienze con i loro bimbi, anche solo per ringraziarmi per aver aperto l’account e creato uno spazio dove ci si sente compresi e simili. Io da parte mia, sono sempre contenta di dare il mio piccolo contributo, sia anche solo un messaggio di positività e forza. Spero sempre di più che @ragazzabehcet possa diventare un punto di riferimento per altri “Behçeters” come me e ritrovarsi in uno spazio dove poter condividere la loro diversità. Che poi, mi piace dire, altro non è che la forza della normalità.

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