Diritti

Le malattie invisibili delle donne

Endometriosi, vulvodinia, fibromialgia: sono alcune delle patologie che sfuggono spesso a diagnosi e ricerca, e che colpiscono perlopiù l’universo femminile. La nostra inchiesta
Giorgia Soleri durante una conferenza stampa per la presentazione del testo di legge sulla Vulvodinia e Neuropatia del pudendo, Camera dei Deputati, Roma 3 maggio 2022
Giorgia Soleri durante una conferenza stampa per la presentazione del testo di legge sulla Vulvodinia e Neuropatia del pudendo, Camera dei Deputati, Roma 3 maggio 2022 Credit: ANSA/FABIO FRUSTACI
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 11 min lettura
23 maggio 2022 Aggiornato alle 11:00

Pazze, inadatte, isteriche, frustrate. Sono alcuni dei termini accostati a tutte quelle donne che, per una qualche patologia non riconosciuta, o non compresa non hanno ricevuto né le cure né le diagnosi corrette. E, così, sono diventate invisibili.

Invisibili come le patologie che non ricevono attenzioni dalla ricerca, non sono associate a nessun codice e non rientrano nei Lea, i Livelli Essenziali di Assistenza: significa che per loro non sono previste prestazioni o servizi forniti dal Servizio sanitario nazionale.

Alcuni esempi? L’endometriosi, la fibromialgia, l’insospettabile emicrania, l’ormai celebre (e meno male) vulvodinia. E poi ci sono 3,5 milioni di persone che soffrono di dolore pelvico (riferito alla pelvi, che corrisponde al bacino), che comprende la famosa neuropatia del pudendo, la sindrome della vescica dolorosa, il vaginismo, il colon irritabile e molti altri. Per trovare una diagnosi di questo tipo ci vogliono, in media, dai 5 ai 10 anni.

Non esiste un elenco aggiornato e istituzionale di queste “mezze” patologie, ma un fumoso puzzle di indizi qua e là che si monta grazie al lavoro di chi si attiva dal basso o degli specialisti che se ne occupano.

Endometriosi

«Quando mi sono sviluppata sono finita un paio di volte in ospedale per i dolori da mestruazione. Entravo dolorante e uscivo senza una risposta, perché nessuno sapeva dirmi cosa avessi» racconta alla Svolta Solema Gagliardi, a cui cinque anni fa è stata diagnosticata l’endometriosi. Significa che del tessuto simil-endometriale è presente in parti anomale del corpo, dove non dovrebbe essere e le conseguenze non sono piacevoli.

«I medici mi dicevano che non avrei potuto avere figli perché sarei stata messa in menopausa forzata, oppure che avrei dovuto rimanere incinta il prima possibile, per non rischiare di mancare l’occasione in futuro. È passato molto tempo prima che mi dicessero cosa avevo: ho avuto un ritardo diagnostico di 7 anni e posso ritenermi ancora fortunata perché la media nazionale è ben più alta: dai 9 agli 11 anni».

Un tempo trascorso sottoponendosi a cure momentanee, come quelle ormonali, con la pillola anticoncezionale a base di estroprogestinici, per attenuare i dolori ma schivando una soluzione che ancora non esiste. Così come non esisteva la stessa diagnosi, fino a pochi anni fa, né il riconoscimento tra i Lea: l’endometriosi è stata definita nel 2017 come patologia cronica e invalidante, ma solo nei suoi stadi clinici più avanzati, ovvero “moderato o III grado” e “grave o IV grado”.

«Ma avere l’endometriosi a uno stadio inferiore non significa in alcun modo che il dolore venga percepito come meno invalidante» dice alla Svolta Martina Carpani, attivista del movimento femminista italiano Non Una di Meno. «Chi ce l’ha più soft spende moltissimi soldi in medicine e necessita una riabilitazione al pavimento pelvico tanto quanto chi le supera nella classifica della cronicità». Si tratta di una patologia che tocca almeno 3 milioni di donne in Italia, circa il 10-15% di quelle in età riproduttiva.

Lo spiega alla Svolta Simone Ferrero, specialista in ostetricia e ginecologia dell’Ospedale San Martino di Genova e professore associato dell’Università di Genova alla Clinica ostetrica e ginecologica del San Martino: «È una patologia abbastanza frequente, che si associa a una sintomatologia dolorosa caratterizzata da mestruazioni dolorose, dolore durante i rapporti, dolori addominali e, in base alla localizzazione della malattia, può far insorgere altri sintomi», continua Ferrero. Dolori, dolori, dolori.

Ci sono donne che pensano sia una sensazione normale, questo perché «il dolore femminile è stato ignorato per molto tempo e associato alla sfera psicologica, allo stress. Eppure, se ci pensate, quando una persona si strappa un muscolo nessuno le dice “Quanto sei emotiva”», spiega alla Svolta l’ostetrica Anna Faggiana, dell’Azienda sanitaria Locale To4, in Piemonte.

Solema Gagliardi racconta che «i dolori si manifestano da un momento all’altro: una mattina ti svegli e stai bene. Poi al pomeriggio, all’improvviso, sei costretto a stare fermo, non fare nulla, e imbottirti di antidolorifici. Nei giorni in cui mi deve arrivare il ciclo mestruale ho timore di stare male perché questo non mi permette di lavorare e io sono una libera professionista».

L’endometriosi, come spiega il professor Ferrero, può colpire l’intestino e provocare una sintomatologia gastrointestinale, oppure la vescica e le vie urinarie e in quel caso sarà di tipo urologico, e così via. Comunque, «il fatto che i sintomi siano molto comuni ai dolori mestruali è una delle problematiche principali per la diagnosi». Essendo cronica, poi, va considerata come il diabete, per esempio, che necessita una terapia cronica e non ha cura.

Fibromialgia

«Ho le mani dolenti, le scosse elettriche mi attraversano tutto il corpo» scrive un’utente della pagina Facebook ConVivere con la Fibromialgia, che riunisce 34 mila persone. «Le spalle e le braccia mi vanno a fuoco», commentano altri sotto al post. I sintomi di questa malattia invisibile sono disparati: dai disturbi dell’umore a quelli del sonno, dalla stanchezza cronica ai dolori muscolo-scheletrici diffusi.

Nel mondo colpisce tra il 2 e il 4% della popolazione mondiale, in Italia quasi 2 milioni di persone, prevalentemente donne in età adulta (sono l’80% dei casi). Ritardo diagnostico pervenuto? 11 anni.

In questo limbo clinico molte persone sono spesso costrette a letto, non riescono ad andare al lavoro o devono comunque chiedere un permesso (ingiustificato) per assentarsi. Una condizione che può presentarsi fin da subito, gradualmente o in seguito a un evento scatenante.

Non essendo riconducibile a lesioni o infiammazione dei tessuti, e non avendo una diagnosi né una causa precisa, la fibromialgia per ora non rientra nei Lea. I sintomi che porta con sé sono così variegati e numerosi da rendere complessa l’individuazione della malattia, che non ha ancora ricevuto la nomina a malattia cronica e invalidante.

Eppure le è stata dedicata una giornata, quella del 12 maggio, ed è la terza sindrome reumatologica più diffusa in Italia. Ma se l’endometriosi ha ricevuto tre milioni di euro di fondi, stanziati dalla legge di Bilancio 2020, per alcuni progetti di ricerca legati alla malattia, nel 2022 sono stati destinati 5 milioni di euro allo studio della fibromialgia.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità non si tratta di una malattia a sé, ma di una sindrome compresa tra i dolori cronici e diffusi della classificazione internazionale delle malattie redatta nel 2019 dall’Oms, che ne riconosce l’esistenza da vent’anni tondi tondi.

Emicrania

Per qualcun* non sarà una notizia, ma l’emicrania è una patologia che colpisce soprattutto le donne, con un rapporto 3 a 1. Secondo il libro curato dall’Istituto Superiore di Sanità dal titolo “Libro bianco Emicrania: una malattia di genere”, colpisce il 27% delle donne nel periodo compreso tra pubertà e menopausa, raggiungendo il massimo della sua prevalenza tra i 40 e i 50 anni, nel periodo di maggiore produttività lavorativa e sociale.

Le forme più severe di emicrania non sono contemplate nei Lea e “solo il 52,6% ha consultato uno specialista, rivolgendosi nel 19,6% dei casi a professionisti non idonei, e coloro che hanno pensato di sentire un parere specialistico si sono rivolti in media a 7 diversi specialisti”, spiega la ricerca.

Così come accade per l’endometriosi e le altre patologie che colpiscono il pavimento pelvico, le donne che soffrono di emicrania presentano un maggior numero complessivo di comorbilità, che è la presenza contemporanea nello stesso soggetto di due o più malattie.

Vulvodinia e Neuropatia del pudendo

Ricordate quando tutti i giornali hanno parlato di una patologia, fino a quel momento sconosciuta ai più, solo perché una rockstar aveva accompagnando “la sua fidanzata” a presentare una proposta di legge a riguardo? Le patologie erano due, la vulvodinia e la neuropatia del pudendo, e quella ragazza era Giorgia Soleri, una modella e attivista affetta dall’ennesima malattia invisibile senza una diagnosi.

«È da un anno che abbiamo intrapreso questo percorso politico e ormai anche “pubblico” grazie alla testimonianza di molte influencer e persone note che si sono esposte per raccontare la propria esperienza» spiega Martina Carpani, che è anche una componente del Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo. Si tratta di un gruppo di esperti e attivisti che hanno lavorato alla stesura della proposta di legge per riconoscere le due patologie come croniche e invalidanti.

Come l’endometriosi, anche la vulvodinia provoca dolori durante i rapporti sessuali, irritazione, secchezza, sensazioni di scosse e piccoli tagli a livello vulvare. La neuropatia del pudendo, che colpisce anche gli uomini, è caratterizzata da disturbo al perineo e alla vescica, che provoca disfunzioni sessuali, formicolii nelle zone citate, dolore a stare seduti.

Come si fa a calcolare esattamente quante persone sono affette da una patologia se in pochi, pochissimi, la conoscono? Si fa una (sotto)stima: la neuropatia del pudendo riguarda il 4% della popolazione mondiale che soffre di dolore pelvico – non serve dire che le donne colpite sono più del doppio -, mentre che la vulvodinia tocchi «tra il 15 e il 17% del totale globale con genitali femminili, circa una donna su sette, e il 10-15% delle donne italiane in età riproduttiva» spiega Carpani, che ha avuto quest’ultima diagnosi dopo un anno, solo grazie agli strumenti e ai canali giusti come le attiviste di Non una di meno, «ma ci sono donne che l’hanno ricevuta dopo dieci anni. Questo aumenta la possibilità che la malattia si cronicizzi e non ci sia più possibilità di guarigione».

Per curarsi, Carpani da Torino deve spostarsi a Bologna non perché non ci siano specialisti (che l’Associazione Italiana Vulvodinia elenca sul sito), ma perché «nel pubblico sono pochissimi con liste d’attesa lunghe due anni, la maggior parte sono privati e non basta un* ginecolog*. Ci vogliono un* urolog*, un* fisioterapist*, un* psicoterapeut*, un* nutrizionist*, tutti medici specialisti che non si parlano tra loro». E i prezzi sono decisamente alti: «Si spendono tra i 300 e i 500 € di cure mediche al mese. Ciò significa che le scelte sulla tua vita, sul tuo futuro, su quale lavoro fare o non fare le devi prendere in base alla tua malattia» spiega Carpani.

Lei e il Comitato chiedono la costruzione di un centro di riferimento pubblico in ogni Regione, «per tutto il dolore pelvico cronico, quindi non solo per la vulvodinia. Poi l’esenzione del ticket, la possibilità di avere farmaci mutuabili off label (quelli che non sono indicati per una patologia, ma vengono prescritti comunque per curarne un’altra, ndr), una maggiore prevenzione e sensibilizzazione nei consultori e nelle scuole, una maggiore formazione sull’argomento: molte patologie non sono visibili con una semplice ecografia transvaginale, serve la risonanza. Ma sono davvero pochi i centri in Italia in cui è certo che individuino quello che nel tempo ti sei autodiagnosticata».

Tiriamo le somme

Cosa hanno in comune tutte queste patologie? «Il principale indagato per il loro ritardo diagnostico è che riguardano tutte la sfera femminile. Nel nostro Paese e nel mondo intero la ricerca è strutturata su un corpo maschile, di 80kg, alto un metro e ottanta», dice Giuditta Pini, deputata per il Partito Democratico e prima firmataria alla Camera della proposta di legge su vulvodinia e neuropatia del pudendo.

Dello stesso avviso è la dottoressa Anna Faggiana: «Il riconoscimento della donna è diverso da quello dell’uomo: pensiamo all’ipertensione, per esempio. Le terapie non possono essere uguali tra l’uno e l’altra. La medicina di genere (definita dall’Oms come lo studio dell’influenza delle differenze biologiche e socioeconomiche e culturali sullo stato di salute e di malattia di ogni persona, ndr) è recentissima».

Per quanto riguarda i Lea, nel 2017 è nata una Commissione che, annualmente, avrebbe dovuto aggiornarli, «ma il progetto non ha ricevuto finanziamenti e il procedimento delle patologie non è mai diventato effettivo», spiega Pini. L’arrivo del Covid-19 e il susseguirsi di molti governi disinteressati a questa problematica ha fatto il resto. Pini spiega anche che l’imminente fine della legislatura non la spaventa: «È stato importante depositare la legge, perché ora potrà essere ripresentata nelle prossime legislature ed essere discussa in futuro».

Un segnale di speranza per tutte quelle persone affette da queste patologie e spesso neanche lo sanno. Il consiglio unanime dei due specialisti intervistati dalla Svolta, Simone Ferrero e Anna Faggiana, è di «cambiare specialista quando vi trovate davanti qualcuno che non crede al vostro dolore». Come spiega la dottoressa Faggiana, è «vietato normalizzare la sofferenza. Vietato credere che sia la regola provare dolore durante un rapporto sessuale. Vietato pensare che una donna non debba provare un orgasmo».

Ferrero spiega che negli ultimi 10, 15 anni c’è un aumento di consapevolezza, in questo senso. «Le pazienti vengono a cercarmi più spesso, ora. Hanno capito che migliorare la qualità della vita significa anche migliorare la propria sessualità». Ed è un grande passo avanti. Ora tocca anche agli altr* un po’ di comprensione, però.

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