Culture

Perché dovresti conoscere Alexandra David-Néèl

Cantante d’opera anarchica e femminista, è stata la prima donna europea a entrare nella città proibita di Lhasa, in Tibet, rimanendo sempre devota a un’idea: per vivere, bisogna coltivare l’esercizio della libertà
Tempo di lettura 5 min lettura
18 febbraio 2024 Aggiornato alle 06:30

Vestita come un mendicante. I capelli castani resi più scuri da una tintura sapientemente ricavata da bastoncini d’inchiostro di china. La donna li annoda con crini di yak, fino a formare una lunga treccia. Poi si cosparge il viso con un intruglio di cenere, fuliggine e cacao. Ha cinquantasei anni. Parla correntemente il tibetano. Ne conosce varianti e accenti. Si chiama Alexandra David-Néèl, cresciuta sulle ginocchia di Victor Hugo, che frequentava il salotto di casa prima che questi fosse costretto all’esilio.

Femminista, anarchica radicale, attrice. Ancora: orientalista, buddhista, librettista d’opera, direttrice del casinò di Tunisi, ricercata dai britannici per sospetta sovversione anticoloniale a causa della sua amicizia con lo yogi Aurobindo.

Alexandra David-Néel ha avuto mille volti, ma una sola vocazione: vivere libera. Libera studiare, viaggiare, incontrare, capire che lo spirito religioso, nel profondo, non sopporta gli idoli.

Ha viaggiato otto mesi a piedi, lasciando il monastero di Kumbun, un gompa tibetano situato a Lusar, oggi nella contea di Huangzhong, in Cina, dove ha risieduto per tre anni. Lo ha fatto scegliendo la via più lunga, passando per i confini a nord-est del Tibet. In compagnia del figlio adottivo, il monaco buddhista Yongden, ha superato il picco sacro del Kawa Karpo, che si innalza a 6740 m sul livello del mare (tutto ciò è raccontato nel suo Viaggio di una parigina a Lhasa, a cura di Emilia Gut, edizioni Voland) e si è confrontata con il passo di Dokar (altitudine: 5.412 metri), che segna il confine con il Tibet proibito.

Tutto le parla: la neve, le montagne rocciose, le radure sterrate. Come se lei e il figlio non fossero mai soli. I loro passi rimbombano come i mantra che recita incessantemente. Annota sul suo diario: «La voce che sentivo era l’eco nella mia mente di idee millenarie a cui il pensiero orientale non smette mai di tornare e che sembrano aver fatto delle alte vette del Tibet una delle loro roccaforti». Arrivata in cima al picco, «rivolgendomi verso i quattro punti cardinali, lo zenit e il nadir, ripeto il voto buddista: “Che tutti gli esseri siano felici”».

Solo allora può iniziare la discesa. Lhasa è davanti a lei: santa, inespugnabile, proibita agli occidentali. In quel momento, non c’è orientalista al mondo che conosca la cultura tibetana a fondo quanto lei. Sarà così fino alla sua morte.

È un giorno del 1924 e nessuna donna europea, prima di lei, è riuscita a varcare la soglia di Lhasa. Lei ci riesce.

«Come?», le chiederanno quando tornerà in Europa, dopo quattordici anni di viaggi e peregrinazioni tra India, Corea, Giappone, Mongolia, Cina e Tibet. «Un passo dopo l’altro. Semplicemente così: un passo dopo l’altro».

Il viaggio, per questa donna straordinaria, capace di segnare un’idea non stereotipata dell’Oriente, è sempre stato più della meta: quel «passo dopo passo» è fatto di percorsi quotidiani, talvolta suggestivi, talaltra pericolosi, sempre all’insegna dell’incontro. Lo racconterà in una serie di romanzi e resoconti di viaggio divenuti dei best seller: Mistici e maghi del Tibet, Il potere del nulla, Nel paese dei briganti gentiluomini (anche questi editi da Voland).

Viaggiare sola, per una donna, non era facile. All’inizio del XX secolo significava perdere ogni possibilità di trovare un “buon partito” e lasciare per strada credito, rango sociale e reputazione. Autrice di un saggio che anticipava di molto l’idea della “stanza tutta per sé” di Virginia Woolf, Alexandra non si perse d’animo e trovò un compagno di vita che la lasciò libera di viaggiare.

Nel 1911, dopo sette anni di matrimonio, partì per un soggiorno indiano che doveva durare pochi mesi. Si protrasse per quattordici anni.

Nata a Parigi nel 1868, entrata giovanissima nella massoneria, frequentatrice mai dogmatica della Società Teosofica, legò particolarmente con Annie Besant, una personalità forte come lei, una femminista militante e sostenitrice dei diritti delle donne. Nel 1891, fu proprio Besant ad assumere la presidenza della Società Teosofica dopo la morte di madame Blavatsky. Il 24 ottobre 1889, quando Alexandra compì 21 anni raggiungendo finalmente la maggiore età, scrisse: «la legge mi dà […] la libera disponibilità della mia persona e di ciò che mi appartiene. Mi vergognerei di non emanciparmi e di rimanere sotto la tutela delle mie passioni e delle mie abitudini».

Aveva girato Londra e i suoi circoli esoterici. Non le bastava. Voleva tornare a Parigi, continuare gli studi e trovare un senso alla sua vita. Lo troverà viaggiando.

Oggi a Parigi, nel quadro del centenario del suo ingresso a Lhasa, chi visitasse le straordinarie sale del Musée Guimet, una delle più importanti istituzioni europee dedicate all’Oriente, troverebbe non poco materiale per riflettere sull’avventura altrettanto straordinaria di questa donna che ha cambiato la nostra idea di viaggio e di incontro tra civiltà.

Scomparsa l’8 settembre 1969, pochi giorni prima di compiere centouno anni, le sue ceneri sono state sparse nel Gange. Libere, anch’esse.

Leggi anche
recensioni
di Caterina Tarquini 5 min lettura
Donne
di Eloisa Del Giudice 4 min lettura