Ambiente

Il mercato dei carbon credits registrerà un boom?

Il settore in crescita rischia di diventare una scappatoia per i grandi inquinatori. Disincentivandoli dall’accelerare la transizione verso le fonti rinnovabili. Ti raccontiamo come
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14 dicembre 2023 Aggiornato alle 08:00

Il mercato dei carbon credit potrebbe conoscere una crescita esponenziale nei prossimi anni, non solo per la necessità delle multinazionali, ma anche per l’esigenza da parte dei Paesi di ridurre la propria impronta inquinante: «Mentre il mondo passa a un’economia a basse emissioni di CO2, si prevede che la domanda di crediti di carbonio aumenterà», ha sottolineato Ryan Lemand, cofondatore e amministratore delegato di Neovision Wealth Management.

Alla conferenza climatica Cop28 i delegati hanno discusso la creazione di un nuovo mercato che vada oltre il valore attuale di 2 miliardi di dollari, dedicato specificatamente agli obiettivi degli Stati nazionali, che vorrebbero accedere facilmente a questo sistema di transazioni per compensare le loro emissioni o sfruttare le riserve naturali per incamerare capitali vendendo i crediti.

Nazioni come gli Emirati Arabi Uniti, il Giappone, Singapore, la Svizzera e la Corea del Sud, sono intenzionate a scommettere su questa soluzione per contrastare la crisi climatica, e già dal 2021 hanno avviato 95 accordi preliminari con alcuni Paesi in via di sviluppo per acquistare future riduzioni delle emissioni.

A ottobre gli Emirati Arabi avevano annunciato la volontà di far crescere le dimensioni di questo mercato di 50 volte a livello globale: «I mercati del carbonio possono promuovere un’azione climatica reale ed efficace sul campo… con significativi benefici collaterali per il clima, le comunità locali e la natura», avevano affermato le autorità governative.

Questo strumento potrebbe dare il via a un enorme flusso di capitali dai Paesi avanzati a quelli più poveri, ma alcuni problemi e cattive pratiche inerenti ai carbon credit stanno suscitando notevoli proteste.

La velocità degli accordi, gestiti spesso da società finanziarie, hanno suscitato allarmi nelle Ong, dato che i Paesi più poveri non hanno gli strumenti o le risorse per gestire adeguatamente questi processi senza incorrere in pratiche fraudolente, specialmente per quanto riguarda i flussi di denaro, i diritti fondiari e il potenziale impatto sulla capacità dei Paesi di raggiungere i propri obiettivi climatici.

Particolarmente esposte sono le nazioni africane, ricche di foreste e aree naturali: «I metodi di sfruttamento potrebbero essere nuovi, ma le conseguenze non sono così diverse da quelle degli ultimi 200 anni che hanno comportato il furto di terre in Liberia. Le promesse fatte alle comunità sono vaghe e imprevedibili ed è come ripetere il disboscamento, l’estrazione mineraria», ha ammonito David Young, un esperto indipendente sul ruolo della società civile nella governance forestale della nazione africana.

Altri scienziati hanno messo in guardia sul rischio che queste pratiche diventino una scappatoia per i grandi inquinatori, disincentivandoli dall’accelerare la transizione verso le fonti rinnovabili. I maggiori produttori di risorse fossili potrebbero sfruttare la loro notevole ricchezza economica per comprare i crediti di vaste foreste, mantenendo allo stesso tempo al massimo la produzione di petrolio, carbone e gas, specialmente in un mercato sbilanciato e scarsamente regolato: «Ci stiamo prendendo in giro quando acquistiamo queste compensazioni», ha dichiarato lo scienziato Thales West della Vrije Universiteit Amsterdam.

I Paesi poveri sono quelli che potrebbero subire per primi un nuovo tipo di “colonizzazione economica”.

Nella nazione liberiana sono sorte numerose polemiche in seguito all’accordo fra il governo e la società di investimento Blue Carbon, che ha sede a Dubai, intenzionata a sfruttare i diritti esclusivi per sviluppare dei crediti di carbonio legati alla foresta pluviale di Gbi-Doru. Cosa che ha suscitato la reazione allarmata delle comunità locali, ignare dei dettagli dell’accordo.

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