Diritti

Mai dire hashtag

Gli #OcchidiTigre di Enrico Letta hanno suscitato parecchia ilarità. Ma in Italia la comunicazione (politica e non) sembra sempre essere l’ultimo dei pensieri
Il segretario del PD Enrico Letta.
Il segretario del PD Enrico Letta.
Tempo di lettura 5 min lettura
23 febbraio 2022 Aggiornato alle 08:00

Tutto pensavamo nella vita meno che Vladimir Putin avrebbe salvato Enrico Letta, e invece ieri un po’ è successo. Certo, una dichiarazione di guerra è un po’ eccessiva come diversivo per una papera sui social, ma così è andata: ma torniamo all’inizio. Torniamo a Enrico Letta, e all’ultimo momento sereno prima che Putin decidesse di raccontarci tutta la storia dell’impero russo dalle origini a “Lenin ha sbagliato tutto” e “l’Ucraina è nostra, statece” (la metto giù brutta, ma questa è la grossa sintesi di un discorso molto lungo e non proprio ben costruito dal punto di vista retorico).

La papera è contenuta in questo tweet.

Metà del problema, converrete, sta nella descrizione che Letta fornisce dei potenziali candidati del PD, eroi fiammeggianti che si scagliano nell’agone politico vibranti di idee e convinzione e con gli artigli pronti a graffiare. Si capisce bene cosa voleva dire, anche se forse non era necessario dirlo: un po’ come quando i pentastellati insistevano che i loro candidati erano “onesti”, un minimo di passione dovrebbe essere di default, se ti candidi a un’elezione qualsiasi. Soffermiamoci piuttosto sulla formulazione del tweet, e in particolare su “occhi di tigre”, descrizione poetica un filo iperbolica ma che sarebbe passata inosservata, se Letta o chi gli cura la comunicazione non avessero deciso di farci un hashtag.

Chi frequenta la rete da un po’ sa che gli hashtag hanno due funzioni primarie, collegate fra loro: tenere insieme i contenuti e le conversazioni su un argomento specifico e segnalare che i contenuti si inseriscono in una particolare conversazione, o filone di conversazione. A queste due funzioni, del tutto utilitaristiche, se n’è aggiunta una terza, per così dire, retorica: non sono pochi quelli che usano il cancelletto davanti alle parole per aggiungere enfasi, anche se quella parola non riconduce a una conversazione specifica né sembra essere adatta ad avviarla. Nel tweet di Letta se ne vede un esempio: #ambizione. L’unico tag usato nella sua funzione originaria è #DirezionePD, e infatti cliccandolo escono tweet rilevanti rispetto all’argomento in questione.

Cliccando #OcchidiTigre, cosa esce?

Fate l’esperimento per conto vostro.

Si potrebbe pensare che questo inciampo comunicativo sia cercato – dopotutto, la tecnica dello strafalcione e della sparata per far girare un contenuto è ormai un classico ben rodato, grazie alla macchina comunicativa di Matteo Salvini comunemente nota come “la Bestia” e in parte utilizzata anche da altre formazioni. Sta di fatto che “occhi di tigre” da solo sarebbe stato già sufficiente ad attirare l’attenzione in maniera discreta: #OcchidiTigre, scritto così, con questa enfasi, è divisivo. Nel senso che i cinquantenni che lo leggono si dividono fra quelli che pensano alla sigla malandrina di Occhi di Gatto, l’altra metà a Eye of the Tiger e a Rocky che prende a cazzotti un sacco tirapugni. Nessuno pensa ai candidati del PD, a parte i candidati del PD che se ne stanno con le mani in faccia a pensare “Ma perché? Perché? Cosa abbiamo fatto di male?”, e se non altro si distraggono per qualche minuto dal disastro in Ucraina.

La creazione di touchpoint delle personalità politiche sulle principali piattaforme non è più negoziabile da tempo: che gli piaccia o meno, il politico sui social ci deve stare. A volte si vede che gli piace proprio, come a Carlo Calenda, che letteralmente adora – o sembra che adori: e alla fine è lo stesso, no? – litigare con la gente su Twitter. Calenda gli occhi di tigre ce li ha nella tastiera, si butta nella mischia con i gomiti alti e ne ha per tutti. Questa veemenza è parte della sua fortuna e della sua permanenza nel dibattito pubblico, perché rappresenta un’estensione autentica della sua personalità politica offline. Fra il Calenda di Twitter e quello che vediamo negli studi televisivi c’è una continuità indiscutibile.

Uno a cui invece i social sembra che piacciano davvero poco è l’assessore alla Salute del Lazio Alessio D’Amato, fortemente accreditato come frontrunner del PD alle prossime elezioni regionali. D’Amato – un uomo le cui competenze non sono in discussione, alla luce di come ha gestito l’emergenza Coronavirus prima e la campagna vaccinale poi – è sbarcato su Twitter pochi giorni fa, con un video che sembra la cosa che registri per avvisare i parenti che sei stato rapito da un’organizzazione terroristica. Sì, sui social bisogna starci, ma i social ti devono somigliare: e se la tua personalità è pragmatica e laconica, meglio indugiare su quel lato, piuttosto che tentare la via del video che dovrebbe mostrare apertura e disponibilità e che invece sta a metà fra il ministeriale anni ’70 e Dolce e Gabbana che si scusano con i cinesi che sono tanti.

Si potrebbe parlare per ore su come in Italia la comunicazione (politica e non) sia considerata una roba per fighetti, perché l’importante è la sostanza. E quindi nell’ultimo anno non c’è stata volta in cui il generale Francesco Paolo Figliuolo, alla prova dei fatti un fenomeno con la logistica, sia comparso in pubblico senza fare almeno una dichiarazione discutibile: essere fenomeni con la logistica non significa esserlo con la comunicazione, e le capacità comunicative di Figliuolo sono inversamente proporzionali al numero di mostrine sulla sua divisa. E questo è il meno: dopo due anni di pandemia, ancora esistono sacche rilevanti di popolazione che non hanno idea di come funzioni il contagio, hanno idee a dir poco fantasiose sui vaccini (“Entrano nel DNA!”) e non sanno di dover fare i richiami, e tantomeno sanno perché dovrebbero farli. Non è una questione di ignoranza, renitenza all’informazione o di “social”: è una questione di incapacità di prendere sul serio la trasmissione delle informazioni fondamentali.

Gli #OcchidiTigre di Letta sono un peccato veniale, qualcosa di cui ridacchiare come si ridacchiava delle colorite metafore di Pierluigi Bersani, e Letta non è privo di senso dell’umorismo: sapersi prendere poco sul serio è importante, ma è anche un esercizio di equilibrio (ne sanno qualcosa Nicola Sturgeon e Ruth Davidson, avversarie politiche che però sono riuscite a mettere insieme uno sketch davvero divertente sulle cose che hanno in comune). Ridere è bello, ma l’ilarità va condivisa, non provocata, soprattutto in un momento delicato in cui costruire la fiducia e una forma di intimità con l’elettorato è la cosa che fa la differenza fra vincere e perdere un’elezione. Dobbiamo parlare di comunicazione, dobbiamo parlarne bene, dobbiamo capire che investire sulla comunicazione è importante. Le parole, come diceva Nanni Moretti in quella famosa scena di Palombella Rossa, sono importanti. Cominciamo dalle piccole cose. Ve li buco, quegli hashtag!