Ambiente

Gli scarichi di Fukushima finiranno nell’oceano

Nel 2023 il Giappone riverserà in mare circa 1,25 milioni di tonnellate d’acqua radioattiva dalla centrale nucleare distrutta da uno tsunami nel 2011. Il progetto ha però molti oppositori, primi tra tutti l’industria della pesca e le comunità costiere del Paese del Sol Levante
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
16 febbraio 2022 Aggiornato alle 11:00

Le lancette dell’orologio ticchettano inesorabili e il tempo per trovare una soluzione alternativa è sempre meno. Nel 2023 il Giappone riverserà in mare circa 1,25 milioni di tonnellate d’acqua dalla centrale nucleare di Fukushima, distrutta dallo tsunami del 2011. Stiamo parlando, tanto per avere un’idea, di una quantità d’acqua radioattiva pari a 500 piscine olimpioniche.

Nel frattempo, la società titolare degli impianti, la Tokyo Electric Power, ha costruito oltre 1000 serbatoi per contenere i litri d’acqua accumulati nelle vasche della centrale da quando il maremoto ha messo fuori uso la rete elettrica e il sistema di raffreddamento, scatenando il più drammatico incidente nucleare dai tempi di Chernobyl.

Lo smantellamento del sito potrebbe richiedere fino a quattro decenni. Ogni giorno circa 170 metri cubi di acque trattate fluiscono nei contenitori istallati intorno agli impianti. È un’operazione necessaria per impedire il surriscaldamento dell’intera struttura, ma entro la seconda metà del 2022, i serbatoi che raccolgono l’acqua si riempiranno del tutto.

Tra i pescatori locali e le comunità costiere del Paese del Sol Levante – il cui sostentamento dipende in gran parte dalla pesca costiera e in generale dalle risorse marine - serpeggia una certa preoccupazione. Il governo giapponese, in realtà, prevede effetti minimi delle radiazioni sulla salute degli uomini e dell’ecosistema marino: circa 0,00081 millisievert di radiazioni all’anno.

Ma alcuni esperti nutrono serie preoccupazioni per l’enorme volume di acque reflue e la potenziale ricaduta di quantità anche minime di trizio, un isotopo radioattivo che non verrà rimosso durante il trattamento. Il piano governativo, infatti, ha incontrato l’aperta opposizione non solo dei paesi vicini, tra cui Cina, Corea del Sud e Taiwan, ma anche delle isole del Pacifico.

In particolare, secondo il Commonwealth dell’arcipelago delle Marianne Settentrionali scaricare l’acqua trattata nell’Oceano non sarebbe l’unica opzione praticabile. Le isole in questione, un territorio degli Stati Uniti che conta una popolazione di circa 51.659 persone, distano appena 2.500 km dal Giappone. A dicembre, i vertici di governo hanno adottato una risoluzione congiunta che si oppone alla decisione di qualsiasi nazione di smaltire le scorie nucleari nel Pacifico.

Purtroppo, quelle della centrale di Fukushima non sono le uniche acque reflue disperse in mare. Negli anni ‘40 le isole del Pacifico sono state ampiamente sfruttate da Stati Uniti, Regno Unito e Francia per i test di armi nucleari. Da qui la reticenza degli abitanti ad accettare qualsiasi attività legata al nucleare sul territorio. La contaminazione radioattiva per gli oltre 300 test nucleari atmosferici e subacquei ha reso molte località, specialmente nella Repubblica delle Isole Marshall e nella Polinesia francese, inabitabili e ha portato a un drastico aumento dei casi di tumore e di malformazioni alla nascita.

Nel 1985, i leader regionali hanno stipulato il Trattato sulla zona franca nucleare del Pacifico meridionale, che vieta i test, l’uso di ordigni esplosivi nucleari e lo scarico di scorie radioattive in mare da parte degli Stati membri, tra cui Australia, Nuova Zelanda e nazioni delle isole del Pacifico.

«Per noi del Pacifico, l’Oceano Pacifico è diventato un banco di prova, un teatro di guerra, un’autostrada per sottomarini nucleari e scorie. Il Pacifico non è una discarica per le acque reflue radioattive», dichiara Maureen Penjueli, coordinatrice della Pacific Network on Globalisation.

«Intensificheremo il monitoraggio dell’area marina già prima delle operazioni di scarico, che dovrebbero iniziare nella primavera del 2022. La concentrazione dei nuclidi regolata dalla legge, inclusi trizio e carbonio-14 e le relazioni sui risultati saranno rese pubbliche», ha spiegato un portavoce del Ministero degli Affari Esteri giapponese.

«Lavoreremo a stretto contatto con il Giappone prima, durante e dopo lo scarico dell’acqua», ha affermato Rafael Mariano Grossi, direttore dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’energia atomica). «La nostra cooperazione e la nostra presenza contribuiranno a creare fiducia, in Giappone e oltre, sul fatto che lo smaltimento dell’acqua avvenga senza un impatto negativo sulla salute umana e sull’ambiente».

In un rapporto pubblicato nel 2020, invece, Greenpeace affermava che il Giappone avrebbe dovuto continuare lo stoccaggio e il trattamento a lungo termine dell’acqua contaminata, senza ricorrere allo scarico in mare, considerato il metodo più semplice e rapido, ma di gran lunga più inquinante.